Quando ero più piccolo ho sempre trovato estremamente interessante spulciare nella storia del calcio, osservando di caso in caso come un semplice gruppo di calciatori sia poi riuscito a diventare una squadra vincente, leggendaria. Alla mia scansione non è ovviamente sfuggita la Grande Inter degli anni '60: come è nata la prima, indimenticabile, squadra interista capace di vincere tutto? La risposta c'è e va ricercata nei dettagli che fanno da contorno alle due Coppe Campioni, alle due Coppe Intercontinentali e ai tre Scudetti vinti sotto l'egida di Helenio Herrera. Perché per costruire un equipe vincente c'è bisogno di una solida spina dorsale, dentro e fuori dal campo.

Sì perché la Grande Inter aveva la straordinaria capacità di essere moderna già cinquant’anni fa. Aveva un presidente mecenate, Angelo Moratti e un grande allenatore, Helenio Herrera, capace di precorrere i tempi e presentarsi trainer a tutto campo, allenando sia il corpo sia la mente. Ma soprattutto, a tessere le fila acquisto dopo acquisto, cessione dopo cessione, c’era lui: Italo Allodi, il direttore generale di quella squadra leggendaria. Figura controversa del calcio italiano, ma dirigente pragmatico e finalista, in grado di assemblare nuclei vincenti seguendo le indicazioni di Helenio Herrera. Allodi non aveva paura di rischiare e di scommettere sulle proprie idee. Tant’è che - quando HH chiese che Antonio Angelillo, bomber dell’Inter capace di segnare 33 gol (record tutt’ora imbattuto) in una singola stagione fosse ceduto - non ebbe dubbi ad assecondare il volere del suo allenatore, pur di arrivare a Luis Suarez, giocatore secondo Herrera più incline allo stile di gioco che, di lì a poco, avrebbe portato l’Inter a vincere tutto. 

“Non ci interessano i giocatori più forti in assoluto. Ma i giocatori più congeniali al nostro stile di gioco”. È questo l’aforisma con cui Allodi giustificò la cessione di uno dei più giovani talenti del panorama europeo. Una frase tanto semplice quanto efficace e spesso dimenticata nel calcio moderno. Perché è davvero difficile trovare tecnici con un’idea di calcio ben definita e, quindi, da seguire. O, ancora, è difficile trovare una società in cui tutti i settori lavorano in sintonia, con unità di intenti. Basti pensare all’Inter degli ultimi anni, in cui si assisteva a un imperterrito via vai di tecnici senza che la dirigenza ne assecondasse alcuno. La tendenza si è parzialmente invertita con Walter Mazzarri che però non si è dimostrato il tecnico adatto a gestire una piazza esigente come quella nerazzurra, finendo per essere sopraffatto dall’ansia delle aspettative di un popolo che è ormai da sei anni che aspetta una nuova guida, capace di risvegliare i fasti dell’Inter che fu. 

Ora, con Roberto Mancini, la storia sembra essere ricollegata al suo ciclo originale e va da sé il ritorno di un’Inter vincente. Sì perché in queste ultime due sessioni di calciomercato il Mancio è stato chiaro: voglio dei calciatori in grado di supportare le mie idee. Quali sono? Leader difensivo, possesso del centrocampo con muscoli e intelligenza, attacco killer. E un grande e carismatico condottiero per amalgamare il talento e far viaggiare tutti nella stessa direzione: quella che porta alla vittoria. 

Per arrivare all’idea di calcio originaria del Mancio, si è dovuto aspettare un po’. I primi esperimenti appena arrivato, gli abbozzi di 4-3-3, il cambiamento in 4-2-3-1 ma - a causa dell’inadempienza della rosa - il passaggio a un più sicuro 4-3-1-2, lontano però dalla filosofia manciniana, che vuole due ali veloci e rampanti in grado di allargare il gioco e di correre in contropiede o di infilarsi nei pertugi giusti quando l’Inter è costretta a dover fare la partita e quindi a sbloccare il risultato con un episodio. Insomma, con Mancini bisogna giocare con intelligenza, per risolvere quei cronici problemi “negli ultimi sedici metri” che tanto hanno condizionato le partite quando sulla panchina nerazzurra sedeva WM.

È quindi necessaria una rivoluzione a livello della rosa, non più di panchina. Molti giocatori vengono valutati senza più alcuna scusante e, di conseguenza, messi nella lista dei partenti. Ma non solo. Ci sono alcuni calciatori (viene in mente il nome di Mateo Kovacic, di Xherdan Shaqiri o di Davide Santon) che hanno sì un valore assoluto molto alto, ma che mal si sposano con le idee del tecnico. Ad esempio, Mancini a centrocampo ha sempre voluto uomini in grado di collimare le due fasi, forti e vigorosi: Stankovic, Vieira, Yaya Touré, Felipe Melo. Kovacic è una creatura estranea alla semplice definizione tattica, una mente calcistica superiore che deve ancora trovare il suo collocamento in campo. È giusto aspettarlo? Sì. È giusto venderlo se, con i soldi della sua cessione, si può dotare l’Inter di un regista (che Mateo, sfatiamo questo mito, non è) e una seconda punta? Si può rispondere in modo sincero: sì. 

Un altro esempio calzante (soprattutto in queste ore) è quello di Xherdan Shaqiri. Un giocatore fenomenale quando gioca negli spazi, ma che trova diverse difficoltà a difesa schierata. Poi, diciamocelo: un conto è giocare nel Bayern Monaco e in Bundesliga, un altro è farlo fra i tatticismi della Serie A in una squadra come l’Inter, ancora in cerca di se stessa. Anche in questo caso c’è bisogno di tempo. Ma l’Inter questo tempo ce l’ha? Ecco perché anche una sua possibile cessione per arrivare poi a dotare Roberto Mancini di due esterni puri (e non di un’ala che ama accentrarsi e trasformarsi in trequartista, come Shaq) come Cuadrado e Mertens, non sarebbe un’idea del tutto malsana. Né, stando a quanto si vive in sede di mercato, tanto impraticabile. 

L’Inter è quindi un cantiere aperto, in cui il cartello mostra un lampante “Work in Progress”. Ma Piero Ausilio, Erick Thohir e Roberto Mancini non hanno paura. Loro costituiscono la spina dorsale societaria della nuova Inter mentre, per ora, sul campo a reggere la nuova Inter dovrebbero esserci Handanovic (ma rimarrà anche senza rinnovo di contratto?), Miranda, Kondogbia e Icardi, in attesa di nuovi, intriganti sviluppi che ad oggi portano i nomi dei sopracitati Cuadrado e Mertens, ma anche di Salah e Jovetic (che permetterebbero a Mancini di giocare sia con il 4-3-1-2 sia con il 4-3-3), ma anche di Perisic e un mediano come Felipe Melo, Mario Suarez e Lucas Leiva. Senza perdere d’occhio le uscite, perché l’idea dell’Inter è chiara (e, tutto sommato, ottima in ottica FFP): vendere e incassare subito (i due milioni per Kuzmanovic sono solo l’inizio) e comprare (e pagare) dilazionando l’investimento nel tempo (le formule con cui sono stati acquistati Miranda e Montoya sono emblematiche di questo). Un calcio ragionato che punta a essere padrone d’Italia e, perché no, d’Europa, ma con solide basi. Thohir non gioca a perdere, questo è certo. 

Ecco quindi che il calcio è il regno della relatività, dove a comandare sono le idee e a vincere sono le persone che riescono a rimanere fedeli a esse sino alla fine, anche quando imperversa la bufera e niente sembra sicuro. L’Inter non ha iniziato il 2015 nel migliore dei modi. Ma è proprio in situazioni quasi drammatiche che si vede l’importanza di un progetto chiaro e delineato come quello dei nerazzurri. Ora, mentre Ausilio scorrazza per l’Europa a caccia del colpo giusto, è il campo - come sempre - che deve cominciare a parlare. Ma d’altronde l’esempio vincente da seguire l’Inter ce l’ha, basta riavvolgere il nastro della propria storia. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 02 luglio 2015 alle 00:00
Autore: Marco Lo Prato / Twitter: @marcoloprato
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