I soldi non fanno la felicità, ma nemmeno le vittorie. Il tema, diventato prepotentemente d'attualità in casa Inter, è tornato in cima all'agenda del calcio europeo sbattuto in prima pagina da quattro eventi lontani geograficamente ma di segno uguale: la conquista della semifinale di Champions da parte del Monaco, il fenomeno cholista dell'ultimo lustro, la cavalcata ormai trionfale in Premier del Chelsea di Conte e le dichiarazioni di Maurizio Sarri sul fatturato.
E partiamo proprio da quest'ultima parolina magica, sventolata come un vessillo dal tecnico dei partenopei prima di Sassuolo-Napoli per spiegare i motivi del mancato salto di qualità della sua squadra, ancora incapace di contendere il titolo alla Juve. "Una società che ha il quarto o quinto fatturato – ha detto - non può programmare uno scudetto, che può arrivare lo stesso ma solo per un fatto occasionale. Se invece il Napoli lo vuole programmare deve aumentare il fatturato". 
Il 30esimo posto dei partenopei nella classifica dei ricavi 20152016 stilata da Deloitte però dice che la Vecchia Signora, decima su scala continentale, è più lontana nel raffronto finanziario che tecnico, laddove subentrano altri meccanismi oltre ai freddi numeri del conto in banca di un club. Il gap economico, in pratica, non trova necessariamente riscontri anche alla voce 'risultati sportivi', anche se il caso italiano porta a dar credito alle parole di Sarri, che però omette di spiegare il motivo per il quale Hamsik e compagni arrivino sistematicamente avanti alle più ricche Inter e Milan. Questo per dire che non si deve incorrere nell'errore fatale di considerare il calcio unicamente un business nel quale vincono le società più facoltose, ma che la tesi è l'alibi perfetto utilizzato dai meno ricchi (non dei poveri, attenzione) per nascondere i loro difetti.

Non è così, e i fatti lo dimostrano: l'ultimo caso in ordine temporale ci porta a Montecarlo, laddove gioca quel Monaco guidato sapientemente da Jardim che ha già fatto piangere gli sceicchi del Manchester City in Europa e non fa dormire sonni tranquilli nemmeno a quelli del PSG in Ligue 1.
Che il vil denaro non sia tutto lo hanno capito anche a Londra, strano a dirsi quando il proprietario del Chelsea Roman Abramovich ha investito qualcosa come più di un miliardo di euro nei suoi anni di gestione del club. Il magnate russo, dopo il divorzio milionario con il costosissimo José Mourinho, però ha cambiato rotta stringendo i cordoni della borsa e affidando la squadra al più economico Antonio Conte che in campionato sta facendo mangiare la polvere ai due club di Manchester, talmente folli nelle loro spese estive da raggiungere assieme la cifra record di 375 milioni di euro. Uno schiaffo all'avarizia che il manager italiano ha incassato con sportività, esibendo i numeri della tattica (3-4-3) e della classifica al grido 'i soldi non sono tutto'. “Questa stagione – ha spiegato l'ex ct dell'Italia - è molto importante per capire che non sempre vince chi spende di più. Questa stagione non è l’unica stagione in cui i club di Manchester hanno speso tantissimi soldi".Chiaro, no?

Cristallino lo è di sicuro per Diego Pablo Simeone, un uomo che ha fatto la rivoluzione culturale in Spagna senza i mezzi economici di Real e Barcellona, ma facendo leva sulla forza del cambiamento dello status quo attraverso la presa di coscienza dell'essere diversi da parte dei colchoneros. Un'azione eversiva che ha mandato in pensione il tiki-taka e riscritto le gerarchie cittadine della capitale iberica (almeno tra i confini nazionali) con un 4-4-2 militare in cui la perfezione degli automatismi prevale sulle azioni estemporanee dei fuoriclasse. E ora si gode la sua creatura, permettendosi di rifiutare il contratto in bianco propostogli da Suning pur di provare l'ebrezza di essere il primo condottiero dei biancorossi nel Wanda Metropolitano, la nuova casa di Griezmann e compagni. 

Questi 4 casi di specie sono legati da un filo conduttore che ci informa che la chiave del successo nel calcio non è unicamente quella lastricata di quattrini, e che questi ultimi possono aiutare a semplificare la strada verso i trionfi ma anche a complicarla maledettamente. Prima di gettarsi a capofitto nella sessione estiva di mercato, dove si potranno sbizzarrire di più rispetto al recente passato, i dirigenti dell'Inter prima dovranno imparare le lezioni che arrivano dal Vecchio Continente e agire senza farsi prendere dalle ansie del 'tutto e subito' che hanno caratterizzato la gestione del primo anno dei nuovi potentati del calcio Per riuscire nell'intento, Zhang Jindong, neofita nel mondo del calcio nonostante l'esperienza già maturata con il Jiangsu, deve cambiare la prospettiva, ormai schiacciata sull'unico punto di vista di Piero Ausilio, e circondarsi di persone esperte che si muovano tra campo e mercato (Capello supermanager è un'idea), esattamente come ha fatto il PSG prendendo Leonardo. Che ha portato in dote Ibrahimovic e Thiago Silva (al secondo anno, ça va sans dire) dopo aver fatto sedere in panchina un certo Carlo Ancelotti.

A livello gerarchico, in società, deve esserci al vertice della piramide la competenza dei dirigenti, soprattutto in un momento di rifondazione come quello nerazzurro, che genera un'attrattività ancora più potente e profonda dell'odore dei soldi. Insomma, l'Inter deve impegnarsi a rimettere al centro del villaggio la credibilità che ora le è riconosicuta solo dalla storia. 

Sezione: Editoriale / Data: Ven 28 aprile 2017 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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