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Andiamo alla città

di Redazione FcInterNews.it

“Eἰς τὴν Πόλιν" (istin ‘Polis). “Andiamo alla Città”. E’ l’etimologia greca del nome Istanbul. Inevitabile, per la mia vocazione classicista, che emergesse implicita e dominante in contemporanea all’esplosione dei cori nerazzurri al termine del secondo atto dell’EuroDerby. Istanbul, la Polis, la Città per eccellenza, coi suoi antichi meandri di culture e di etnie, con le sue contaminazioni artistiche e sensitive. Icona stavolta di un “viaggio”, immaginifico ed onirico, agonistico e metaforico, inaspettato e sorprendente, anche più essenziale ed importante della stessa “meta” proibitiva.

Nella mia mente riecheggiavano simili concetti e filosofie, mentre osservavo commossa le innumerevoli ed autentiche scene di felicità regalate dai protagonisti in campo: il senso di appartenenza, la catarsi emotiva filtrano, arrivano ed invadono anche chi è lontano. Non conoscono limiti cronologici, spaziali, passionali. E’ l’Internazionale ed il suo percorso verso lo storico territorio ottomano è un dono, un privilegio. Un enorme privilegio. Ancora analogie emergono nella mia psiche: il duello epico e decisivo fra Ettore ed Achille nell’Iliade. Ubicazione al confine dell’odierna Turchia e guerriero semidivino, alto, biondo: sarà un caso? Si combatte, si lotta, anche cadendo in battaglia nella simbolica arena. Un’atmosfera permeata di mitologia. Il primo pensiero si concede alla dietrologia: tredici anni. Di sopravvivenza, di delusioni, di fallimenti. Di umiliazioni, di derisioni. Anatema e surrealismo. Timore di non poter più rivivere appuntamenti così prestigiosi. Un’antologia indisciplinata e severa di ricordi che opprime. Prima di assistere nuovamente ad una Finale di Champions League.

Se Madrid ha rappresentato l’epilogo sontuoso di un ciclo incredibile, Istanbul sarà un rinnovato punto di partenza. Comunque vada. L’Inter è l’underdog, spensierata ma razionale, con lo sguardo di sogno dei suoi neofiti, al cospetto di un Manchester City che si nutre di perfezione, ambizione, opulenza ed ossessione. Non ostenterà quel “senso del possesso della forza” della meravigliosa squadra di Mourinho, ma merita gratitudine, luce ed interesse. Per il suo blasone, per la sua storia, anche per il recente e difficile passato. E’ accaduto di tutto, in questi tredici anni di attesa. Forse tutti noi non siamo ancora pronti. Anni consumati ad assistere alle danze orgiastiche sfrenate, alle “feste degli altri”. Stagioni trascorse nel sospetto di balordi e reiterati risarcimenti altrui, nel tentativo di comprendere etichette ed alchimie finanziarie ai piani alti. Come un banchetto interminabile di porzioni velenose, mentre il dialogo, virtuale e trasversale, esorcizzava le ansie di tutti noi tifosi. In ogni periodo deprimente, in ogni sconfitta, in ogni speranza svanita, abbiamo reagito.

Spesso abbiamo rischiato di cedere il passo alla rassegnazione, quasi all’accettazione (forse apparente?) di un certo stato di mediocrità, di immobilismo, magari consolandoci con un’altra genesi lessicale, ovvero quella della parola “krisis”, che allude al momento drammatico che deve schiudere necessariamente all’occasione di riscatto, all’opportunità di crescita. Non ho mai creduto agli scenari apocalittici, però il nostro è stato davvero un esercizio spirituale di sacrificio e d’amore. Abbiamo saputo resistere, sopportare, tollerare. Non siamo mai fuggiti dalla nostra missione, qualunque fosse la dimensione alla quale la squadra era stata destinata. Anni di ricostruzione, in cui si pregava per un quinto posto in classifica. Hanno abdicato strateghi di spessore, ispirati dalle idee più eclettiche, spesso deragliati sui binari dell’insicurezza, dell’instabilità, della confusione, prede del panico aldilà dell’esperienza. Si è inanellata una sequenza di atleti e di professionisti, molti dei quali avrebbero meritato di vincere qualcosa per il talento, l’abnegazione, l’applicazione e la lealtà dispensati. Ci siamo legati quasi morbosamente a giocatori spesso capricciosi, il cui corso è stato bruscamente interrotto. Abbiamo subìto tradimenti e pentimenti, rimpianti e provocazioni.

Poi la memoria incensa Luciano Spalletti, che infrange il sortilegio riportandoci “a rivedere le stelle” della fase a gironi di Champions nel 2017, dopo un’astinenza ed un’assenza di cinque stagioni. Sino ai tributi fantastici per la creatura di Antonio Conte, condottiero impeccabile nell’istruire allo scudetto una squadra dalla visione tattica mnemonica, dall’identità sicura, dall’atteggiamento competitivo e lucido, dall’organizzazione meticolosa e completa in ogni reparto. Campione d’Italia appena due tornei fa. Sarà sempre costretta a rigenerarsi, l’Inter. Ripercorrere questi ultimi tredici anni mi fa pensare alla persone che c’erano allora ed oggi non ci sono più. Il corollario sono le lacrime della condivisione dei momenti ormai smarrita. “La paura è un peccato”, recitava un aforisma di Oriana Fallaci.

Che Istanbul rappresenti un nuovo inizio, un prologo fiducioso, quando calerà il sipario e tutto sarà finito, in un modo o nell’altro.

Alessandra Carpino


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