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Di assolate, indimenticabili domeniche

di Redazione FcInterNews.it

Non è sempre vero che gli idoli che non abbiamo mai conosciuto non possano far parte, per qualche recondita ragione o per qualche impercettibile pezzetto, di qualche nostra giornata. Esiste spesso un filo sottile che unisce noi a loro, indissolubilmente. Perché loro hanno colorato un sacco di domeniche sbiadite, felici e indimenticabili.

Si corre il serio rischio di sembrare un tantino retorici, ma lo correremo volentieri.

Andi Brehme è morto e, con lui, un pezzo della mia giovinezza interista. Senza Brehme, le magliette MISURA, di cotone spesso, hanno un po’ meno colore; le domeniche vuote, alle 15, alla fine del anni '80, sono un po’ più lontane. Così come i mercoledì sera alle 20:30, con la nebbia di Coppa UEFA.

Andi Brehme ha rappresentato, per quelli della mia generazione, la figura plastica del panzer tedesco. Con Matthaeus e Klinsmann, è stato la causa del batticuore incontrollato quando li ho visti a Lecce, nella mia prima volta in uno stadio di serie A. Con Matthaeus e Klinsmann è stato il muro solido con cui si poteva respingere, nei campi e con le parole, il trio olandese. Biondo e con i capelli lunghi era esattamente come sarei voluto apparire io, con i miei 10 anni, nei campetti sintetici e consumati dei sabato pomeriggio, con i calzettoni alti e le Adidas Kaiser nere con la suola bianca.

Brehme non era il protagonista, quel ruolo spettava a Lothar. Lui era, in qualche modo, l’antagonista o, meglio, il compagno fedele, treno e sinistro educato allo stesso tempo. Se non eri buono a giocare a centrocampo, se non eri potente come Lothar, potevi essere Andi Brehme e andava bene uguale.

Fluidificante, si chiamava all’epoca. Così lo chiamava mio padre e così ripetevo io, vantandomi con i miei amici delle enormi conoscenze calcistiche. Talmente idolo che, persino nella finale Mondiale contro l’Argentina, ebbi l’ardire di esultare per un rigore tedesco e non italiano.

Non è vero nemmeno che i giocatori passano e la maglia resta. Alcuni giocatori restano anche quando sono passati. Restano nelle menti di chi li ha visti, tifati e sofferti manco fosse l’ultima partita del mondo, manco si trattasse della cosa più importante delle proprie giornate. Restano perché hanno accompagnato domeniche settembrine e assolate oppure piovose e colme di compiti da finire, radioline in auto e rare trasferte in macchina. Restano per quella ragione, come sottofondo silenzioso e discreto di anni indimenticabili in cui pareva che la sconfitta dell’Inter fosse la cosa peggiore che potesse accadere nel weekend.

E poi restano perché ci sono logiche sportive a cui è bello credere. Come quella del filo sottile che dal 1989 nessuno ha reciso e che porta, dritto dritto, da uno scudetto dei record a un altro scudetto dei record. Con molta gioia e poca retorica, ciao Andi.

Giancarlo De Cata


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