Tutte le verità di Sinisa
Sinisa non era un santo. Non lo è nessuno su questa terra, forse neppure quelli che ne portano il prefisso. Era piuttosto un uomo dal carattere superbo e preponderante, un allenatore cattivo e in parte conservatore. E un ex calciatore forte, dal sinistro imperioso e dal temperamento oltre le righe.
Questo era Mihajlovic. Niente di più e niente di meno.
Il mondo del calcio però lo amava. Lo amava molto, spassionatamente, forse perché aveva indossato molte casacche o forse perché con quelle casacche, sempre, aveva lasciato grandi ricordi.
Eppure non era un santo, Sinisa. È inutile però ripeterlo oggi, con convinzione immodesta. La dialettica di ricordarlo come un martire è fuorviante, è vero. Ma insopportabilmente patetica è la dialettica di chi, oggi, ne sottolinea le debolezze e gli errori del passato, ergendosi dall’alto della propria presunta moralità e ricadendo inevitabilmente nei luoghi comuni più odiosi.
Oggi, il mondo del calcio, che è un posto corrotto e sporco, ha la possibilità di piangere e ricordare un proprio uomo pulito, uno dei pochi. E l’occasione, oltre che tragica, è troppo dolce per non ricordarne le doti sportive e umane. Perché, oggi, Sinisa, anche grazie ai propri errori e ai propri limiti, è l’eroe della debolezza umana, in ogni singola sfaccettatura, in ogni anfratto dei sentimenti, dai più sani ai più odiosi.
Ed è giusto così. È giusto ricordarlo alla maniera che merita. In maglietta e pantaloncini, oppure in panchina a fare la parte del duro.
Non era un santo Sinisa, è vero. Ma è proprio questo che lo rende oggi soltanto un uomo. Ricordato, acclamato e rimpianto.
Il mondo del pallone ha bisogno disperato non di santi, ma di uomini puliti. Pieni di errori, certo, ma puliti. E onesti. Sinisa lo era con certezza. E oggi il calcio perde un bel pezzo.
Così è, senza ipocrisie né bugie. Senza santi, né martiri. Ma carne e ossa, errori e dolori atroci. E bestemmie, e falli, e tackle.
E parabole di sinistro divine.
Giancarlo De Cata