Chivu ricorda Bayern-Inter 2010: "Prima della gara Mourinho sembrava Spielberg con uno script di un film da Oscar"
"Diciotto anni, all’Ajax appena arrivato, con dei capelli inguardabili. Era il 98-99, il mio ciuffo mi sa che era venuto un po’ male. Credo sia la prima foto ufficiale con l’Ajax. Non era la prima volta che andavo a vivere da solo ma la prima volta in cui vivevo da solo all’estero e non era facile. Era una realtà che non conoscevo, me la cavavo con l’inglese ma non è stato facile. Si avverava però un sogno, quello di giocare in una grande squadra, di migliorarmi, di imparare quello che poi mi è servito durante la mia carriera. Sono astati momenti speciali, quattro anni bellissimi. Sono arrivato da ragazzino e sono maturato molto. Ho lasciato l’Olanda poi per venire in Italia ed ero molto più maturo per l’età che avevo".
Sei stato pure capitano?
"Sì, avevo vent’anni. Non è banale? No, non è banale, ma ho avuto la fortuna di avere compagni che mi hanno aiutato molto e di allenatori che hanno creduto in me. Per responsabilizzarmi mi hanno dato la fascia e tutti gli altri hanno visto in me qualcosa che probabilmente non ero ancora riuscito a vedere".
Cosa ti sei portato dall’Olanda come calciatore e come allenatore?
"Da giocatore è facile perché sono migliorato sotto tanti punti di vista, soprattutto nel senso di responsabilità perché l’Ajax ti insegna molto umanamente e professionalmente. Da allenatore qualcosa mi porto ancora dietro, qualche principio che voglio trasmettere ai ragazzi. Ma il calcio alla fine parla la stessa lingua ovunque, cambia il modo di interpretarlo e bisogna adattarsi al posto in cui lavori e del materiale con il quale lavori".
Con Totti:
"Prima partita col Brescia in cui ho anche segnato su punizione, forse. Ma no, forse non credo. Comunque sì, Totti è stata la mia fortuna. Ho trovato in lui un ragazzo per bene e straordinario, un capitano e un leader e una persona speciale. Per quello che rappresentava e rappresenta per la squadra e per la città. Non mi toccava litigare con lui per le punizioni, perché se era una punizione dalla parte destra battevo io, i patti erano chiari".
Come è stato il passaggio da Amsterdam a Roma?
"Cambia un po’ la cultura ma mi avvicinavo anche un po’ a quello a cui ero abituato. Noi romeni siamo latini quindi a Roma mi riavvicinavo un po’ alle mie radici, a casa. Più o meno lo stesso modo di vivere le difficoltà della vita. Il romano è come il rumeno, ha sempre la battuta pronta. A Roma mi sono legato bene, ho fatto tante amicizie, sono stato bene e ho passato quattro anni meravigliosi. Ho vinto una Coppa Italia, ne ho perse due, sono sempre arrivato secondo… Dal punto di vista umano e della crescita professionale sono stati anni molto belli".
Difficoltà?
"Ovunque si vada ci sono momenti belli e brutti ma bisogna voltare pagina. Dal punto di vista umano ho vissuto una città meravigliosa, un museo a cielo aperto. Per quello che dà e trasmette sono stato benissimo".
Sul gol all’Atalanta con l’Inter:
"Un momento speciale perché il primo gol con la maglia nerazzurra. Ho aspettato tanto per segnare un gol, lo volevo ma non ci tenevo tanto, è arrivato a qualche mese dal mio infortunio alla testa. È stato un momento bello, l’abbraccio con i compagni e l’affetto del pubblico mi ha commosso. Vedere i compagni che mi abbracciavano e baciavano la cicatrice dicendomi quanto meritassi quel gol è stato davvero emozionante".
Cosa vuol dire quella cicatrice?
"Un brutto infortunio che per fortuna ho superato in pochi mesi. Niente di più, niente di meno. Ho sempre imparato a prendere le cose nella vita per come vengono e a sapermi rialzare. Alla fine quello che conta è voltare pagina e cercare di fare del tuo meglio per riprendere quello che avevi lasciato prima di un infortunio. Ho avuto la fortuna di essere in una società che mi ha dato tanto, dal presidente all’ultima persona che lavora in società, chi più chi meno mi ha trasmesso qualcosa. Ho avuto la fortuna di lavorare con un allenatore che ha creduto in me dall’inizio, che mi ha dato fiducia e responsabilità e che ha creduto nella mia parola. Gli avevo detto di mettermi in lista UEFA a gennaio dopo il mio secondo infortunio perché avrei recuperato e lui lo ha fatto. Poi i miei compagni mi sono stati tanto vicino".
Hai ancora il caschetto?
"No. Non sono uno molto ordinato. Mi guardo dentro, ho tutto nel cuore e nella testa. Il caschetto non so che fine abbia fatto".
Su Stankovic:
"Deki, il mio fratello grande. Abbiamo istaurato un’amicizia grande che abbiamo tuttora. Ci siamo conosciuti da avversari ma sempre con rispetto, sia quando lui era alla Lazio che all’Inter e io ero ancora a Roma, poi i nostri destini si sono uniti e abbiamo legato molto. È eccezionale, ci sosteniamo a vicenda, abbiamo una famiglia molto legata, i bambini poi, uno dei suoi l’ho quasi allenato, lo vedo tutti i giorni. Filip l’anno scorso lo vedevo un po’ meno ma per me sono come i miei figli".
Stankovic era il pilastro di quel gruppo molto unito…
"Diciamo che eravamo il gruppo degli zingari. A parte gli scherzi, io sono nato a 100 km da Belgrado, quindi sono un ammiratore grande del popolo serbo per l'orgoglio e la fratellanza che riescono a esprimere".
Inter Forever.
"Non penso a quello che ho fatto da giocatore. Ci sono ricordi bellissimi che ogni tanto racconto se qualcuno me lo chiede, ma io non guardo mai indietro. Sono sempre preoccupato del presente, senza guardare troppo in avanti perché la vita può giocare brutti scherzi. Mi sento un uomo fortunato, non è da tutti quello che mi è successo. Ora sto facendo l'allenatore, mi occupo solo di quello che sto facendo per trasmettere ai ragazzi cose che rimarranno con loro per tutta la vita".
Mourinho.
"Un grande uomo, un vincente., un amico. Abbiamo passato del tempo insieme e, nonostante le strade si siano separate, siamo sempre rimasti in contatto. Lui è un grande".
E' vero che ti aveva detto prima della finale di Madrid quando saresti stato ammonito?
"Sì, sì. Mi aveva raccontato cosa sarebbe successo nel mese di maggio. I patti erano chiari: avrei fatto da titolare la finale di coppa, mentre a Siena sarei andato in panchina. Poi mi ha detto che avrei preso il giallo con Robben e che mi avrebbe messo come mediano nel secondo tempo, con Pupi sull'olandese. Sembrava Steven Spielberg con uno script di un film che poi ha vinto l'Oscar".
Che tipo di allenatore è Chivu?
"Lo dovete chiedere ai miei ragazzi. Sono passonale, mi interessa la loro crescita, a volte vorrei essere più concreto nel trasmettere le mie idee ma mi accorgo che non è facile. Sto migliorando, i ragazzi mi danno tante soddisfazioni e per questo li ringrazio. So che devo migliorare ancora per poi ragggiungere gli obiettivi che ancora non riesco a inquadrare".