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Zanetti: "Lautaro ogni anno fa uno step in più. Ricordo quando siamo andati a prenderlo, ha capito subito una cosa"

di Stefano Bertocchi

In occasione dell'uscita del suo terzo libro, 'Un legame mondiale' (Mondadori), il Corriere della Sera intervista Javier Zanetti, ex capitano dell'Inter e ora vice presidente del club nerazzurro. Uno scritto che inizia nel 1978 a Buenos Aires, quando allo stadio Monumental, nella casa del River Plate, si giocava l’ultima partita del gruppo 1 del Mondiale tra Argentina-Italia: "Avevo cinque anni, me lo hanno raccontato. Ricordo i festeggiamenti, però. Meraviglioso vincere la Coppa del Mondo a casa propria. Poi uno cresce e inizia a capire quello che c’era dietro... Penso alla pressione sui calciatori, cosa volesse dire giocare in quelle condizioni lì", racconta Pupi.

Ai campioni argentini, nel libro, hai dedicato alcuni ritratti. I cinque più forti che hanno giocato in Italia? Escluso l’autore di questo libro e Maradona, che è fuori quota.
"Questa è difficile... Vediamo. Angelillo. Quello della Juve, Sivori. Batistuta. Milito. E Cambiasso, per la sua intelligenza".

Scrivi: «Lautaro, rivedevo qualcosa di me nel suo sguardo».
"Lauti, ricordo quando siamo andati a prenderlo. Ha capito subito la grande opportunità che aveva. Ha saputo entrare nella cultura del calcio italiano e in quella dell’Inter. Se tu vedi, ogni anno Lautaro fa uno step in più...".

Pupi Zanetti, Cholo Simeone, Cuchu Cambiasso, Principe Milito, Tucu Correa, la Joya Dybala, Di Maria el Fideo, che vuol dire «lo spaghetto». Perché questa passione argentina per i soprannomi?
"I telecronisti. Sono loro che ci battezzano, subito. E il nome rimane".

José Mourinho il tecnico del triplete: un allenatore peronista?
"Mou è così, è la sua forza. Sa rispondere a ogni situazione. Lui pensa, pensa sempre. Si prepara prima".

La scelta di Mancini di mollare tutto e tutti e andarsene in Arabia Saudita?
"Conosco Mancio. Mi dispiace per questa situazione. Si poteva gestire meglio".

Cose ti piace e non ti piace di Milano?
"Mi piace l’energia, mi piace meno la fretta. Se a Milano ti dico “Beppe, andiamo a prenderci un caffè?” è una roba di tre minuti, poi tu vai a lavorare, io vado a lavorare. A Buenos Aires? Mezz’ora, come minimo".

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