Beato l'ultimo (dei predestinati)
C’era una volta… un incubo. Un male atavico, subdolo, quasi esistenziale, col quale una ricca generazione di tifosi interisti, in particolare quelli nella fascia d’età per la quale non possono essere etichettati con l’appellativo di ‘boomer’, hanno dovuto fare i conti. Un disturbo sfociato a volte anche nella sfera sociale che per tanti, troppi anni, ha avuto un nome e un cognome ben preciso: per tantissimi anni, infatti, l’Inter, il suo ambiente e i suoi supporters hanno dovuto vivere la lunga era di quella che veniva chiamata la ‘Sindrome di Roberto Carlos’. Un incubo la cui origine è ben definita nei tempi e nei modi: l’Inter aveva scoperto nella stagione 1995-1996 una vera e propria pepita di nome Roberto Carlos da Silva, prelevato dal Palmeiras per la somma di 10 milioni di lire e capace di elettrizzare San Siro coi suoi tiri che definire potenti era quasi eufemistico e le sue serpentine clamorose.
Una luce che dura la miseria di una sola stagione, perché sul suo cammino il brasiliano incontrerà un tecnico di nome Roy Hodgson che non stravedrà mai per lui, al punto da definirlo poco disciplinato tatticamente e a preferirgli il giovane Alessandro Pistone, più adatto al suo modo di vedere il calcio e a spingerlo a lasciare l’Italia e accasarsi al Real Madrid dove diventerà semplicemente il numero uno del suo ruolo al mondo. La narrazione rimarrà sempre quella di un Hodgson che preferì un onesto giocatore al potenziale crac della corsia mancina, e anche se qualche anno dopo lo stesso Pistone offrì la sua versione parlando di un Carlos che volle a tutti i costi andare in Spagna con l’Inter che non oppose la benché minima resistenza, la dea Eupalla rimase sorda e decise di lanciare la sua maledizione.
E da quel momento, iniziarono i tormenti. Che coinvolsero in primo luogo lo stesso Pistone che una volta salutato senza troppi convenevoli Hodgson saluterà anche lui l’Inter per costruirsi una discreta fortuna in Inghilterra, soprattutto all’Everton; ma che puntualmente colpivano quella banda che ad un certo punto sembrava essere maledetta, coi dirigenti nerazzurri incapaci di trovare un qualsivoglia interprete che potesse offrire prestazioni perlomeno decenti in quel ruolo. E in questi anni, tanti, tantissimi sono stati i giocatori transitati su quella fascia rivelatisi poi dei flop a diverso livello. Tanto per citare un po’ alla rinfusa, si passa da chi è arrivato forse nel momento sbagliato come Mickael Silvestre, l’eterno spaesato Grigorios Georgatos che due volte ci ha provato, due volte ha pure cominciato bene e due volte è caduto nella trappola della nostalgia, lo sfortunatissimo Francesco Coco, l’anonimo Pierre Wome, promesse del vivaio mancate come Giovanni Pasquale. Fino a nomi da brividi: il ‘raccomandato’ Gilberto, l’ectoplasmatico Jeremie Brechet arrivato alla chetichella e alla chetichella andato via dopo essere stato scherzato in quel di Brescia, fino alla sciagura massima che risponde al nome di Vratislav Gresko.
Il post-Calciopoli, con Fabio Grosso e Maxwell, è un piccolo periodo di assestamento, anche se le cose migliori arrivano quando su quel lato agiscono l’eterno Javier Zanetti e un adattato nel ruolo come Christian Chivu, con Davide Santon che promette tanto ma poi purtroppo mantiene poco. Finiti quegli anni la giostra riparte: tiene botta il simpatico e generoso Yuto Nagatomo, pur con tutti i suoi limiti tecnici; qualcosina si intravede in giocatori come Alex Telles e Cristian Ansaldi, decisamente si vedono le streghe ripensando ai nomi di Dodò, Alvaro Pereira o Henrique Dalbert. E per fortuna che da quelle parti si trova a transitare anche l’enorme cuore di Danilo D’Ambrosio… Tanti, troppi nomi; una porta che gira all’infinito e a vuoto, negli anni in cui nasce, cresce e si forma calcisticamente quello che a un certo punto sembra essere l’antieroe di questa storia e che invece diventerà il cavaliere capace di cancellare questo dannato sortilegio una volta per tutte.
Nasce a Milano, è figlio di un titolare di un banco di frutta e verdura in Corso di Porta Romana; approda all’Inter a otto anni e fa tutta la trafila delle giovanili pur lottando spesso coi giudizi negativi di chi lo riteneva troppo undersized. Poi comincia ad assaggiare la prima squadra, con Roberto Mancini che gli concede qualche minuto prima in un grigio incontro di Europa League contro il Qarabag, poi in campionato nella sfida contro l’Empoli. Nel mentre, si impone a livello giovanile trascinando la Primavera nerazzurra alla conquista della Viareggio Cup prima di iniziare il classico ‘grand tour’ di chi deve farsi le ossa. Un giro di prestiti che, come molto spesso accade, si rivelerà pieno di insidie, ostacoli e scogli che a tratti sembrano insormontabili.
Il suo cammino sembra assimilabile a quell’epopea al contrario appena raccontata: parte bene con l’Ascoli in B, poi vive una stagione più complicata ad Empoli, con la squadra che retrocede e lui che gioca poco. Poi arriva il momento più buio col trasferimento al Sion, in Svizzera: l’infortunio, le punizioni in campi militari, i litigi con l’allenatore, i pensieri tetri, lo smarrimento e la voglia di smettere. Tutti sembrano dimenticarsi di lui, anche l’Inter che lo aveva cresciuto; finché non arriva il Parma che gli permette di rivedere la luce per un po’, luce che diventa folgore a San Siro quando fulmina Samir Handanovic regalando un colpo esterno ai ducali prima di un nuovo, lungo stop ancora per infortunio. Ritorna all’Inter con Antonio Conte, che gli concede qualche apparizione prima di un nuovo prestito reclamato quasi in ginocchio: un bene per lui, perché trova il terreno giusto per fiorire in quel di Verona, con le cure amorevoli di Ivan Juric che ne fa di lui il prototipo del perfetto esterno a tutta fascia.
L’Inter si convince e se lo riprende per consegnarlo a Simone Inzaghi. Ed è lì che il suo cammino prende la strada definitiva: sembra destinato a fare il guardiaspalle a Ivan Perisic eppure dopo poche partite spazzola via le ragnatele dalla porta della Sampdoria con una punizione capolavoro. Da lì in poi è un crescendo: più passa il tempo, più convince tutti fino a esplodere completamente la stagione successiva, quando a Robin Gosens, arrivato per sopperire alla partenza del croato, non resta sostanzialmente che guardare ammirato le sgroppate di questo ragazzo col cuore nerazzurro che ara la fascia, mette assist deliziosi e al tempo stesso appena può mette a segno gol incredibili in qualunque maniera, festeggiati sempre con quell’esultanza un po’ così, figlia di un gioco tra amici, che fa impazzire la gente nerazzurra.
Questa è la storia di un ragazzo dell’Inter diventato anima dell’Inter, il portabandiera dell’interismo in campo e fuori, che trascina i tifosi e poi canta con loro. Di questo eroe sin qui non è stato citato il nome, ma a questo punto pare quasi superfluo dirlo: se oggi la sindrome di Roberto Carlos appare un male lontano e dimenticato lo dobbiamo a Federico Dimarco, il terzino sinistro tra i più importanti al mondo e dal valore più alto al mondo, figlio prediletto dell'Inzaghismo. Che si è definito “l’ultimo dei predestinati” e che ora si è ritrovato a essere il primo, e non si parla solo di cartellino. È proprio il caso di dirlo: beato lui, Dimash…
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