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'Caso Eriksen'? Per chi sa poco di calcio

di Alessandro Cavasinni

Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Proviamo a fare chiarezza. Christian Eriksen arriva all'Inter nel mercato di gennaio e fa il suo esordio in nerazzurro il 29 dello stesso mese: 24 minuti con la Fiorentina, in Coppa Italia. Ventiquattro, proprio come il numero scelto per la sua avventura italiana. Eriksen non è un 4 e non è nemmeno un 10 puro: è un 8 più di qualità che di qualità. Difficile trovare giocatori simili al danese, che prima nell'Ajax e poi nel Tottenham ha imparato a giocare un po' ovunque dalla metà campo in su. Ha ricoperto il ruolo di mediano, di mezzala, di trequartista, di esterno di fascia, di ala e anche di seconda punta. Insomma, un giocatore totale, polivalente, che non avrà il contrasto nelle sue corde, ma che sa anche sacrificarsi per il bene della squadra.

Dicevamo: esordio con la Fiorentina in coppa, tanto per assaggiare il terreno di San Siro e raccogliere l'ovazione dei suoi nuovi tifosi. Poi altre sette presenze, delle quali tre da titolare: quella di Udine in campionato e le due con il Ludogorets in Europa League. Troppo poco? Ci si aspettava di più? Comprensibile l'ansia dei tifosi, meno la superficialità degli addetti ai lavori. Parliamo di un mese e spiccioli, diamine! Delle due, l'una: o si pensa che per organizzare una squadra di Serie A basti mandare in campo 11 giocatori oppure c'è dell'incompetenza. Lo stesso Antonio Conte l'ha spiegato più e più volte: un conto è inserire a metà stagione un esterno, un altro è mettere dentro un centrocampista. Cambia tutto: dalle consegne tattiche al feeling con i compagni. Peraltro, Eriksen non solo ha cambiato squadra a metà stagione, ma ha cambiato anche campionato e Paese. Senza dimenticare che gli ultimi mesi al Tottenham non erano stati brillantissimi anche in virtù della scelta di lasciare Londra: per questo è arrivato a Milano a prezzo di super-saldo.

Il discorso va al di là della tattica: Eriksen può benissimo giocare da mezzala e, anzi, è forse quello il ruolo che sente più suo. "Mi piace giocare dove c'è il pallone", ha detto recentemente in un'intervista. Semplicemente, va dato tempo a lui di adattarsi a un nuovo mondo, prima che a un nuovo calcio, e va dato tempo a Conte di incastrarlo in un meccanismo già rodato. Fare paragoni – come spesso si fa con l'arrivo di Sneijder nell'agosto 2009 – è fuorviante e del tutto privo di senso. Si prendono in esame contesti e soggetti diversi, meccanismo del tipico cervello pigro che semplifica e banalizza, stravolgendo totalmente la realtà.

In poche parole, creare un 'caso Eriksen' è follia. Una forzatura di chi, evidentemente, ha pochi spunti in un momento in cui il pallone è fermo e non rotola sul prato verde dei terreni di gioco. Aspettarsi qualcosa di differente era difficile. Certo, tutti si auguravano un inserimento rapidissimo, ma il percorso più verosimile è proprio quello a cui stiamo assistendo (e non a caso Conte avrebbe preferito Vidal...). Diffidare di chi parte a razzo: la storia del calcio, compresa quella dell'Inter, è piena di calciatori che hanno abbagliato immediatamente con le prime uscite per poi spegnersi fino ad arrivare al malinconico addio. La politica del lavoro e dei piccoli passi è spesso quella vincente. Decretare giudizi sommari e creare allarmismo dopo 8 partite è un esercizio degno di chi sa poco di calcio. E non solo di calcio.


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