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Con Cassano e contro i quaquaraquà

di Giorgio Ravaioli

Sono stati giorni, questi ultimi, a dir poco particolari per i cittadini di Racalmuto, centro alle porte di Agrigento. Beh, intanto, niente a che vedere ovviamente con Salvatore Racalbuto, fischietto associato dalla giustizia sportiva e non alla causa juventina per un buon periodo con tanto di scheda estera appresso sempre secondo diverse sentenze univocamente redatte in questo senso. No, parliamo di Racalmuto e di quei tanti che da quelle parti hanno udito fino a ieri uno strano rumore di spostamento d'aria a cui nessuno era riuscito in origine ad attibuire una causa. Bene ora si è capito che Leonardo Sciascia, le cui spoglie mortali riposano nel cimitero della località siciliana, dal giorno in cui Antonio Conte ha deciso di citarlo, non aveva più smesso di rivoltarsi nella tomba provocando quel sibilo continuo e pervasivo giunto all'orecchio degli ignari concittadini di tanto scrittore.

La passione civile che sopravvive alla morte, il senso di ribellione per l'uso prosaico di una citazione, Sciascia non può spiegare quello che noi ci sforzeremo di interpretare partendo dai fatti, quelli spiccioli, dalle cronachette del calcio da ringhiera di cui, invece, il tecnico leccese è incontrastato protagonista da quando è riapprodato a Torino quasi un anno e mezzo fa. Quaquaraqua è il frammento di un capolavoro di Sciascia che in questo caso ha deciso di utilizzare per partire alla baionetta contro Antonio Cassano, reo di lesa maestà per aver affibbiato l'appellativo di soldatini ai calciatori a misura delle esigenze etico-disciplinari previste dal decalogo edito, secondo il calciatore barese, dalla dirigenza bianconera. Il mondo di Antonio Cassano è stato scandagliato in tutti i suoi anfratti in 13 anni di visibilità da una critica spietata e in fondo pietosa, pronta a riprenderne con durezza le escrescenze verbali e comportamentali, con una parallela forma di comprensione/compassione venata talora di sottile razzismo a fare da sfondo alle reprimende, secondo un adagio insistito e sempre più rassegnato "fa male a sé stesso" "avesse più testa sarebbe un dei migliori al mondo" fino al definitivo "peccato, ha sprecato il proprio talento, avrebbe potuto fare ben altra carriera".

Nel mondo pallonaro di questi anni omologato e in fondo annoiato di sé e delle proprie frasi fatte, pressurizzate in meccanismi e uomini prevedibili, il mondo di Cassano ha rappresentato una diversione colorita e giocosa, impertinente. Impertinente nel senso più stretto del termine cioè spesso non pertinente col contesto di riferimento, sfrontatamente lunare e surreale, priva di limiti se non quello spazio-temporale-attitudinale che lo ha portato a 30 anni suonati a ricominciare da capo per l'ennesima volta in un'altra sede di lavoro quando avrebbe potuto in base alle sue qualità vivere di rendita sui crediti accumulati in una carriera che invece gli lascia ricordi disomogenei e largamente inferiori alle premesse. Una carriera rimasta sospesa tra i condizionali e i periodi ipotetici, lo sanno tutti lo sa certamente lui che se l'è scelta. Scelta, insistiamo. Ha scelto di entrare in rotta di collisione pesantissima coi dirigenti che l'hanno arruolato, anche quelli che l'hanno pagato e amato come Garrone. Ha perfino scelto il dileggio del proprio allenatore, imitandolo pubblicamente, quando seppe scuotere l'impomatato teatro del Bernabeu, scimmiottando la prossemica di Fabio Capello. Che agì di conseguenza, ma senza ostentare il ruolo del giustiziere a reti unificate per marcare un territorio di credibilità che, per buona consapevolezza di sé contrapposta a quella dell'autore dello sfregio, sapeva non essere a rischio di alcuna compromissione.

Infantile e sguaiato, e sempre pronto però a pagare in prima persona. Non c'è occasione che ricordiamo in cui qualcuno abbia pagato per lui o in cui abbia prima lanciato il sasso e poi nascosto la mano o la fionda. In cui abbia prima scongiurato la propria non responsabilità di fronte a quanto gli veniva addebitato per poi trattare uno sconto nel trattamento ricevuto patteggiando una diversa verità. Ci siamo, forse abbiamo capito cosa c'era dietro il movimento turbinante della salma dell'autore de "Il giorno della civetta". Il quaquaraqua che aveva in mente quando fece pronunciare l'epiteto al capo cosca nella sua celebrata opera non aveva le sembianze di Antonio Cassano ma forse di qualcun altro.


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