Da Tevez a Van Dijk e Lukaku, passando per Kanté: Conte e l'eredità costruita dal mercato
Sliding doors o, più semplicemente, come l'acquisto mancato di un giocatore può cambiare il destino di un allenatore. Un discorso che vale anche per Antonio Conte, re d'Italia con la Juve nella stagione 2011-12 anche, se non soprattutto, per l'affare sfumato sull'asse Milano-Parigi-Manchester che prevedeva l'approdo di Carlos Tevez al Milan al posto di Alexandre Pato, destinato al Psg. Senza semplificare l'ultimo decennio del calcio italiano, ben più complesso di una trattativa che favorisce una storia rispetto a un'altra, la sopracitata è una concausa molto più solida del gol fantasma (solo per Tagliavento) di Sulley Muntari per spiegare la nascita della monarchia assoluta dei bianconeri su territorio nazionale. Un dominio incontrastato che Suning ha deciso di spezzare chiamando proprio chi l'ha avviato, l'ex nemico Antonio, capitano della Vecchia Signora prima in campo e poi in panchina. Arrivato a Milano dopo un giro lunghissimo durato quattro anni, un viaggio nel tempo disseminato da diverse porte scorrevoli.
La prima si aprì nel luglio 2014, con l'addio choc al club della sua vita al secondo giorno di ritiro attraverso una rescissione consensuale maturata – Conte dixit – di fronte ad alcune percezioni negative. Soprattutto legate al mercato, vero termometro delle intenzioni di una società: nello specifico, il tecnico salentino chiese esplicitamente un colpo top che gli avrebbe permesso di variare a livello tattico i suoi schemi, Juan Cuadrado, e volle la garanzia circa l'incedibilità di Arturo Vidal e Paul Pogba. Senza queste premesse, Conte voltò le spalle al suo passato facendo una scelta da professionista, forse la più importante della sua vita sportiva, mettendo la propria carriera al primo posto anche rispetto alla fede incrollabile per i colori bianconeri.
Dopo l'intermezzo in Nazionale, dove si scontrò non con il mercato ma con la povertà di talento di una generazione mai così poco generosa per il nostro calcio, Conte si lanciò anima a corpo nella sfida intrigante del calcio inglese, con l'obiettivo di guidare il Chelsea dal decimo posto alla gloria. Riuscendoci al primo colpo, esattamente come gli era accaduto a Torino, perché potè disporre di una rosa comunque competitiva ai massimi livelli e rinforzata da un certo N'Golo Kanté, alias l'uomo in più del Leicester City che l'anno prima aveva centrato un'impresa leggendaria da consegnare ai posteri. Nel 2017-2018 niente bis, dovette abdicare al trono cedendo la corona a Pep Guardiola, primo col City al secondo anno di lavoro in un'annata da record chiusa a 100 punti in classifica. I Blues finirono quinti, senza nemmeno la consolazione della qualificazione in Champions, anni luce dietro i campioni: 30 punti il distacco impietoso a maggio. Difficile, se non impossibile, realizzare il back to back in un campionato così competitivo, soprattutto se le rivali dirette si rinforzano esattamente con i giocatori indicati per rimanere al top a lungo. "Ho chiesto due giocatori ed eravamo molto, molto vicini dopo aver vinto il campionato nel 2017. Eravamo in contatto tutti i giorni e ho sempre detto che con questi giocatori avremmo migliorato la squadra del 30%. Peccato non aver preso Lukaku, perché all'Inter sta dimostrando che avevo ragione, e Van Dijk che sta facendo lo stesso al Liverpool", ha confessato martedì in un'intervista esclusiva al Telegraph. Ignorando la cifra che avrebbe dovuto stanziare Abramovich per acquistarli. L'olandese, totem difensivo di Klopp, arrivò ad Anfield nel gennaio 2018 per quasi 90 milioni di euro, una spesa monstre per un centrale possibile solo dopo la cessione di Coutinho al Barcellona per 150 mln. Big Rom cambiò casacca, passando dall'Everton allo United, l'estate prima e a posteriori abbiamo visto quale è il reale valore del suo cartellino quando l'Inter lo ha prelevato da Old Trafford dopo l'annata meno scintillante della sua carriera. "Da lì abbiamo perso il nostro momento al vertice e la possibilità di rimanerci per tanti anni", ha aggiunto Conte, spiegando di fatto che – una volta ancora – sono state le divergenze con la dirigenza sulla costruzione della rosa a causare il divorzio.
La seconda separazione ha portato a un raro anno sabbatico, un periodo in cui è nata la possibilità di allenare l'Inter per riportarla ai fasti di un tempo. Un vincitore seriale è quanto di meglio potesse chiedere una piazza che non festeggia un titolo da dieci anni. Un gap accumulato che, pur con una proprietà ricca come Suning, non poteva essere azzerato in una singola sessione di mercato: tra luglio e agosto arrivano Lukaku, Sanchez (in prestito), due giocatori dalla provincia come Sensi e Barella e la scommessa Lazaro dall'Hertha, oltre a Godin già preso a parametro zero mesi prima. Alla rosa delle new entry si aggiungono a gennaio tre nomi 'inglesi': Eriksen (top indiscusso), Young e Moses, dal Fener ma via Chelsea. La somma di questi innesti, più il plusvalore portato da Conte, fruttano un secondo posto in Italia e in Europa League all'interno di un'annata con l'asterisco per segnalare l'anomalia causata dal Covid-19.
E' sempre la pandemia a dettare le leggi del mercato e, in generale, a fissare obiettivi e le tempistiche per raggiungerli. Ecco perché, in questo mondo messo in standby dal virus, il tempo per tracciare i bilanci definitivi si dilata rispetto al normale. Si accettano compromessi che in periodi normali sarebbero stati irricevibili, come una campagna acquisti autofinanziata che ha portato in dote Achraf Hakimi (coi soldi versati dal Psg per Mauro Icardi), Arturo Vidal (grazie allo spazio salariale liberato da Godin), Aleksandar Kolarov e i due ex fuori progetto Radja Nainggolan e Ivan Perisic. Altro che Kanté, il sogno proibito che chissà se verrà mai realizzato. Ma questa volta, per via delle note circostanze, l'ex ct non sembra avere fretta di dire 'goodbye, Suning', pronto com'è a recitare la parte dell'aziendalista dopo il summit riparatore di Villa Bellini. Per la prima volta in tanti anni passati facendo avanti e indietro vicino alla linea laterale del campo, Conte ha alzato il suo sguardo dal 'qui e ora' per proiettare la sua visione nel futuro. Mettendo i valori del club sopra a ogni cosa, anche a quelli del gruppo di giocatori che allena. Ora non è più il condottiero del 'veni, vidi, vici', ma un reggente che vuole costruire un sistema di potere che duri a lungo, un'eredità da lasciare ai suoi successori. "Dopo quello corrente ho un altro anno di contratto con l’Inter, dove ho iniziato un progetto: sinceramente, voglio continuarlo e restare per molti anni perché stiamo costruendo le basi", ha confessato ai colleghi inglesi. Un piano pluriennale che ricerca la mentalità vincente prima ancora della vittoria: "Si può vincere un anno anche solo per demeriti altrui o perché ti gira tutto bene, ma essere una società vincente nel tempo è un’altra cosa. E il mio obiettivo, insieme al club, è riuscire a riportare l’Inter a quel livello. Però bisogna essere chiari e non vendere fumo: non ci si arriva grazie a un acquisto e neanche solo per le capacità di un tecnico, perché dieci anni senza successi come quelli passati dall’Inter non sono casuali...". Questo il nuovo manifesto programmatico del Conte 2.0, in attesa della prossima porta scorrevole offerta dal destino.