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Dal paragone con Conte all’obbligo di rivincere lo scudetto: c’è troppo semplicismo sull'Inter di Inzaghi

di Mattia Zangari

Si è sentito tutto il contrario di tutto sull’Inter dopo la vittoria schiacciante contro l’Atalanta, accompagnata dalla miglior prestazione in assoluto delle prime tre giornate della Serie A 2024-25. Non potevano che essere i campioni d’Italia, già abituati ad appagare il senso estetico anche dei tifosi neutrali almeno a partire dalla passata stagione, a sciorinare una performance completa, salvo piccolissime sbavature, sui due lati del campo (la perfezione non esiste). Novanta e passa minuti che hanno ulteriormente rafforzato le convinzioni di chi va decantando il gioco dei nerazzurri da tempo, ma anche dei più scettici che magari, poiché accecati dal tifo, prima sminuivano le imprese dei ragazzi di Simone Inzaghi. E poi ci sono quelli impossibili da convincere, il cui gusto calcistico è fondato su stereotipi coi quali alimentano la loro tesi fino alla morte senza mostrare un minimo ripensamento. 

E’ un peccato non accorgersi di tanta bellezza, di tanta coralità e armonia. Sì, perché, praticamente senza dribblatori, l’Inter si è dotata di triangolatori, per dirla alla Maurizio Viscidi, l’uomo che sta portando  le Nazionali italiane giovanili a un altro livello sotto la sua supervisione. Il calcio, fondamentalmente, è ‘passing game’ fino alla trequarti, poi diventa dribbling game, uno contro uno, concetto estremizzato negli ultimi tempi. Non da Inzaghi, che ha trasformato quello che era un limite grosso della sua Inter in virtù, praticamente costruendo un concetto di gioco fatto di relazioni in cui lo smarcamento la fa da padrone. Il lavoro senza palla, quello in cui l’Inter eccelle anche a livello europeo, serve a svuotare e riempire gli spazi in campo, per poi essere sfruttati al meglio da chi ha il possesso. E qui viene il bello: non esiste un solo regista, nonostante la sorprendente metamorfosi di Hakan Calhanoglu (a proposito, complimenti per la candidatura al Pallone d’Oro a lui e a Lautaro). Tutti, da Sommer in su, possono determinare con una giocata un’azione offensiva. Questo perché il tasso qualitativo degli interpreti è sopra la media, ma anche perché la lunghezza dei passaggi viene scientemente ridotta, grazie ai reparti corti con cui si crea densità in zona sfera. La squadra resta compatta non tanto perché si muove in blocco, quanto per via degli interscambi tra i vari giocatori che portano anche ad avere Acerbi centravanti e Mkhitaryan ultimo difensore a 50 metri dalla propria porta. Una formula che ha reso l’Inter praticamente invincibile nello scorso campionato, in cui le grandi sono state spesso trattate come le piccole in termini di gol segnati. Lo spartito è quasi sempre lo stesso: partenza a razzo nel primo tempo, gol del vantaggio, quindi distanza di sicurezza messa tra sé e l’avversario sulla quale poter suonare al meglio la propria sinfonia. Un piano che è quasi sempre riuscito nell’ultimo anno: la minaccia di rendersi pericolosi con la palla anche in zone di campo potenzialmente innocue è il deterrente più grande che usa l’Inter, capace di costruire dal basso attirando la pressione nemica ma anche di eseguire transizioni letali (Thuram fondamentale ad allungare e allargare la squadra) che poi si tramutano in occasioni e, spesso, in gol. Se le difese sono stressate, anche gli attacchi faticano a fare il loro perché l’Inter rimane pur sempre una squadra abile anche a coprire gli spazi le poche volte in cui è in fase passiva. Difficile coglierla in contropiede, non facile creare i mismatch in uno contro uno con i giocatori non velocissimi, quasi mai esposti a questo tipo di duelli. Insomma, un esemplare di squadra che sarebbe piaciuto a Johan Cruijff, il profeta del calcio totale a cui è stata attribuita la celebra frase: "Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia". 

Attenzione a non fraintendere, però: semplice, non semplicistico. Come i detrattori vanno dicendo da troppo tempo. L’ultimo famoso a parlarne in pubblico è stato Antonio Cassano, un disco rotto quando si discute di Inzaghi, che è arrivato addirittura ad affermare che circolano voci secondo cui il tecnico piacentino "fa poco e niente e continua a fare quello che ha fatto Conte". Tesi che non sta in piedi sin dal giorno 1 dall’arrivo dell’ex Lazio ad Appiano Gentile, quando la sua Inter era in nuce. In questi tre anni anni e spiccioli, mentre cambiavano svariati giocatori e una proprietà, Inzaghi è arrivato ad elevare lo status europeo dell’Inter attraverso il lavoro. Tanto che, a margine dei sorteggi di Montecarlo, i giornalisti di Sky hanno invitato Beppe Marotta, presidente del club, a non andare in dribbling sulle ambizioni oltreconfine della Beneamata per la nuova competizione allargata a 16 squadre. "Noi non ci nascondiamo. Arrivare tra le prime otto? Si, beh, noi ci tentiamo. Poi Inzaghi magari non la pensa come me, ma bisogna condividere quelli che magari all'inizio sembrano apparentemente dei sogni all'inizio, ma noi siamo l'Inter e dobbiamo essere ambiziosi. Poi non bisogna confondere l'arroganza con l'ambizione, ma dobbiamo difendere la nostra storia, che non è arroganza ma voglia di fare bene. L'ambizione deriva dal valore della squadra, abbiamo grande qualità e una storia che ci impone di dover sempre far bene”, ha detto il dirigente varesino.

Sì, perché grazie Inzaghi è riuscito anche a modificare il modo in cui l’Inter viene vissuta all’estero, dove riscuote quella considerazione che qui in Italia si trasforma nel peso di dover vincere a tutti i costi per evitare il fallimento. In Serie A, si gioca per il secondo posto perché l’Inter è fuori concorso, secondo alcuni analisti e tifosi, che magari gufano un po’ per vedere quella suspense che da due anni finisce a febbraio. Allora, visto che il bis scudetto è già garantito (ironia), Inzaghi si concentri sulla Champions, per ottenere quella consacrazione sulla quale nessuno (forse) avrebbe da ridire.


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