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Fratellastri di Milano

di Mattia Zangari

Più che cugini, fratellastri diversi del gol di Cristian Zapata e di una madre sbadata, Europa, che li ha abbandonati alle loro esistenze da anni. Questo il nuovo grado di parentela di Milan e Inter dalla scorsa Pasqua, quando la zampata al minuto 97' del difensore colombiano sbriciolò le già friabili velleità dei nerazzurri di qualificarsi all'Europa League e consegnò ai rossoneri le chiavi in mano per aprire le porte della lenta rivoluzione, già in nuce grazie al closing di Yonghong Li.

Sull'altra sponda del Naviglio, per contraltare, si assistette a un rifiuto al cambiamento, al miglioramento graduale del proprio status sociale di nobile decaduta e cacciata a pedate dal vecchio continente non appena aveva messo il naso fuori dai confini nazionali. Un atteggiamento determinato dallo sgonfiamento improvviso 'dell'involucro di motivazioni' dei giocatori, così rinominato dall'ex traghettatore di anime perdute Stefano Pioli, che il film di un derby che può cambiare in peggio le sorti di una stagione lo ha vissuto in prima fila con gli occhi delusi di chi osserva impotente a un ammutinamento in presa diretta di una ciurma senza amor proprio.

Prima che domenica prossima, a San Siro, si chiuda il cerchio dell'eterno ritorno dell'uguale in chiave Champions, è bene ripercorrere in che modo le vite parallele rossonerazzurre siano arrivate ancora una volta a toccarsi in un unico punto: tutto succede in un'insolita notte di dicembre, due giorni dopo Natale per essere precisi, quando la squadra di Spalletti snobbò, come già in maniera ancor più marcata con il Pordenone, la stracittadina di Coppa Italia, tendendo generosamente la mano alla resurrezione gattusiana anziché dare il colpo di grazia a una formazione 'alla canna del gas', come ammise candidamente Ringhio a fine partita. La pietà fraterna dimostrata da Icardi e compagni, in soldoni, è stata la benzina di cui si è servito il Milan per avviare una macchina che ha macinato nel 2018 tanti chilometri da tenere un ritmo quasi da scudetto, obiettivo che dopo il mercato faraonico condotto da Fassone e Mirabelli qualcuno aveva definito frettolosamente 'alla portata'. La stessa urgenza di vedere Milano di nuovo in alto aveva spinto una buona fetta della critica ad inserire l'Inter come terza incomoda per il titolo, complice l'avvio da record degli spallettiani. (Pioli non docet)

Ed eccoci qui, al 1° di marzo, a discutere delle due meneghine ancora lontane anni luce dalla testa della classifica, distanziate di soli sette punti, che a ben vedere non è altro che la differenza marcata soprattutto dall'ultimo incrocio in campionato. Quando, all'andata, prevalse la Beneamata 3-2 al fotofinish, approfittando della gentile cortesia di Ricardo Rodriguez che diede letteralmente una mano a Icardi per far secco Donnarumma dagli undici metri. A conclusione di una gara dai due volti, ben condotta dai padroni di casa nel primo tempo, poi ripresa addirittura due volte dopo il ritorno prepotente dell'avversario che sciorinò il miglior secondo tempo della modesta era Montella. Ma contro quell'Inter, quella di ottobre, non bastò.

Abbandonando il passato, che a riguardarlo da vicino sempre preistoria, ora è bene sincronizzare gli orologi a domenica prossima, il giorno della verità, quello delle elezioni per il governo della Milano calcistica. All'ombra della Madonnina, alle 20.45 in punto, passerà il vento della rivoluzione, davanti a cui non è ammesso farsi trovare impreparati dopo esserci arrivati in maniera delittuosa in tali condizioni. L'avvertimento di Zapata non ha insegnato nulla a Suning, che per ora si è dimostrata inadatta al mutamento radicale: cambiare idea troppo spesso non aiuta nei processi di trasformazione, né tantomeno in sede di mercato nella costruzione di una squadra che aveva bisogno di essere rifondata. Succede, quindi, che - a meno di un anno di distanza dal 2-2 rocambolesco dell'aprile 2017 - il Milan confermerà solo tre elementi di quella formazione, l'Inter ne riproporrà sei/sette. La vera modifica interista è in panchina, ma anche lì è seduto un signore che non può definirsi in rivolta contro la proprietà: dopo le minacce solo accennate di mezza estate a Riscone ("A me sono state promesse delle cose, se non vengono mantenute vengo qui e lo dico") Spalletti non ha saputo opporsi con forza al dietrofront di Nanchino. Anzi, qualche mese dopo è passato da incendiario a pompiere: "Mercato? Il vero smacco è non essere riuscito a proteggere i tifosi dalle false aspettative". Vuoto cosmico comunicativo che è diventato prassi per una società che rende note mai le proprie intenzioni, nemmeno ai suoi uomini più vicini e fidati: "I cinesi cambiano idea all'ultimo momento, questo accade frequentemente", ha recentemente ammesso il direttore tecnico, Walter Sabatini, nel parlare dell'affare Teixeira-Corinthians saltato a un passo dal traguardo. Una volubilità pericolosa che è la massima critica che si muove al gruppo nerazzurro, lo stesso che l'incostante famiglia Zhang ha contribuito – salvo rare eccezioni - lasciare in preda alla sua instabilità.


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