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I debiti dell'Inter e il Real che vince sempre: da Gasperini a Cardinale, parlano tutti della stessa cosa

di Mattia Zangari

L’equilibrio competitivo nel calcio sembra essere un’espressione tabù. Meglio parlare di 'gap' da colmare con le grandi facendo debiti, per dirla con Gian Piero Gasperini, oppure autoproclamarsi alla guida di una società modello dal punto di vista economico per accusare 'qualche illustre società' di non rispettare il Fair Play Finanziario come ha fatto Rocco Commisso. Il tutto, curiosamente, dopo le due finali europee giocate rispettivamente da Atalanta e Fiorentina, con epiloghi diversi. Se la Dea ha compiuto quella che sarà ricordata dai posteri come impresa titanica, una meravigliosa eccezione nella storia del calcio, forse alla pari in tempi moderni al Leicester City campione d’Inghilterra, la Viola ha assaporato il gusto amaro della sconfitta per il secondo anno di fila in Conference League. Una competizione minore creata dal nulla per dare pari opportunità ai club più piccoli di vivere comunque l’emozione di giocarsi un trofeo che in tempi normali avrebbero potuto vedere solo in televisione. Una specie di contentino introdotto da Aleksander Ceferin, presidente UEFA, che in occasione dell’inaugurazione, non a caso, rimarcò che il calcio fosse 'di tutti' e 'non solo per una ricca élite'. Sempre col chiaro intento di tirare una bordata alla Superlega, il progetto promosso da 12 top club europei e naufragato nel giro di 48 ore nell’aprile 2021, che si aggira per il Vecchio Continente come uno spettro aspettando di assumere un’altra forma, magari meno pacchiana della prima versione.

Michel Platini, colui che promosse il FFP da numero uno della UEFA, sostiene che il disegno dei potenti del calcio sia ‘inevitabile’. Nel mentre, il dirigente sloveno che rimarrà in carica fino al 2027, è corso ai ripari, anche perché il Tribunale di Madrid ha sentenziato ‘l’abuso di posizione dominante di UEFA e FIFA impedendo la libera concorrenza nel mercato nella vicenda della Super League'. Come? Con il lancio dalla prossima stagione di un nuovo format per la Champions League, ampliata per la prima volta a 36 partecipanti. Più partite e un singolo girone di qualificazione concepito come un unico campionato, proprio come accade nell’Eurolega di basket, in un contesto di meritocrazia che è solo di facciata: è vero, non ci sono gli inviti, ma è altrettanto pacifico che il ranking premi certi Paesi piuttosto che altri alle periferie dell’impero, allontanandosi molto dal concetto di Coppa dei Campioni, per dare più spazio allo spettacolo che genera più ricavi arricchendo i più ricchi. Due nazioni portano cinque squadre, mentre altre per essere rappresentate devono passare dall’imbuto dei turni preliminari. A Londra, sede della finalissima di Champions League, José Mourinho già parlava della difficoltà di accedere con il suo Fener al torneo sempre più monopolizzato dal Real Madrid nell’ultimo decennio. Sì, perché sabato scorso, a Wembley, sulla passerella dei vincitori, Florentino Perez, il burattinaio della Super League, è passato davanti allo sguardo di Ceferin da presidente più vincente della gloriosa storia dei blancos, per alzare al cielo la settima Champions in carriera, una in più dell’iconico Santiago Bernabeu. Insomma, nell'ultimo decennio, ha vinto (quasi) sempre il Real, in uno squilibrio estremamente negativo che rende tutto più scontato e, quindi, meno appetibile per lo spettatore.

"I tifosi ovviamente vogliono vincere sempre. L’ironia nello sport è che se vinci ogni anno rendi la competizione meno interessante. L’elemento umano e la sua imprevedibilità è quello che rendono queste cose così preziose”, ha dichiarato recentemente Gerry Cardinale, proprietario del Milan, al Qatar Economic Forum. Parole distorte alle nostre latitudini, forse per snobismo verso il modo americano di concepire lo sport. Ma guai a sottovalutare il ‘competitive balance’, un concetto serio che non si ottiene applicando semplicemente una regola. Nel frattempo, visto che rimane un Sacro Graal irraggiungibile, non serve a niente evocare il diritto di giocare con le più forti, sapendo di perdere puntualmente 8 volte su 10, per poi lamentarsi del fatto che succede per le differenti possibilità di spesa. Meglio parlare di dimensioni diverse tra società come fatto Luca Percassi lunedì sera, correggendo il tiro rispetto a quanto detto dal suo allenatore. 


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