Il calcio è di chi (non) lo dà
È successo un’altra volta. In barba ad appelli, poesie, striscioni in mezzo al campo, post con invito alla fratellanza sui social, iniziative in ambito socio-culturale: questa prima parte del campionato 2019-2020 sembra ormai fare notizia non per l’Inter capolista a punteggio pieno, per i gol di Romelu Lukaku, per la Juventus che vince pur non convincendo fino in fondo ancora del tutto, per la Roma dove pian piano sta emergendo un certo lavoro di qualità da parte di Paulo Fonseca, per i problemi del Milan o per il rapporto complicato della Fiorentina con la vittoria. No, purtroppo questo avvio di campionato passerà probabilmente agli annali come quello della rimonta dell’intolleranza tornata ad abbattersi con la potenza di uno tsunami negli stadi italiani. Un fenomeno puntuale, ma che mai come in queste settimane pare aver vissuto tanta intensità negli ultimi anni. Da Romelu Lukaku a Cagliari, si è passati per gli episodi che hanno visto coinvolti prima Franck Kessie a Verona, fino ad Henrique Dalbert, oggetto dell’ennesimo triste spettacolo fornito dai tifosi dell’Atalanta al punto tale da costringere l’arbitro Daniele Orsato a fermare il match con la Fiorentina.
Fa male dover sentire ancora certe cose, senza per forza voler cascare nel facile luogo comune dell’ “anche nell’anno tal dei tali”, inutile e fuori luogo perché certi atteggiamenti non avrebbero ragione di essere nemmeno nell’anno zero o diecimila avanti Cristo. Fa ancora più male dover ancora assistere non tanto alle scuse di ufficio delle varie società coinvolte, impregnate fin troppo spesso di una retorica che ormai sta diventando anche pruriginosa della difesa dei valori e della condanna formattata di certi episodi, che tanto domani è un altro giorno e si vedrà, quanto al repentino voltarsi dall’altra parte di addetti ai lavori pronti a negare di aver sentito qualcosa, o, ancora peggio, alla Giustizia sportiva che preferisce mettere tutto sotto il tappeto senza prendere provvedimenti seri come si reclamano ormai da anni, cercando magari di dare di tanto in tanto l’immagine di una presenza di polso solo per assecondare una certa fetta di sentimento nazional-popolare.
Non ne vorrebbe sicuramente parlare ancora Antonio Conte, che già venerdì scorso, alla vigilia del derby, su questo tema era stato particolarmente chiaro lanciando un duro ‘j’accuse’ ad un Paese del quale ha denunciato l’imbruttimento della morale e dei costumi, travolto come non mai da una spirale d’odio e di rancore che lo ha reso irriconoscibile ai suoi occhi, lui che ha avuto modo di confrontarsi con una realtà come quella inglese, praticamente agli antipodi nel modo di vivere il calcio, dove magari il problema è ancora sentito e oggetto di una particolare sensibilità da parte dell’opinione pubblica ma dove ci si è posto l’interrogativo su come mettere argine a determinati problemi e a quell’interrogativo è stata poi data una risposta concreta. Vorrebbe parlare della gara con la Lazio, sfida che negli ultimi anni ha suscitato emozioni intense in positivo come in negativo nell’ambiente nerazzurro, che arriva a pochi giorni dalla vittoria nel derby della quale il tecnico salentino vuole indubbiamente cavalcare l’onda dell’adrenalina ancora fresca nell’aria.
E invece, ancora una volta, si deve tornare su questo tema, su questo tema che a lui sembra fare particolarmente male. E allora, ancora una volta Conte decide di sfoderare gli artigli mettendo nuovamente all’indice la deriva mediatica. E non tanto per il fatto di temere i tranelli di una stampa pronta ad elogiare oggi per poi mollare delle ‘saccagnate’ (ipse dixit) al primo passo falso, come del resto si è visto anche in occasione dell’inciampo di Champions League contro lo Slavia Praga, quanto per la leggerezza con la quale vengono trattati certi argomenti, per il modo in cui chi, attraverso il suo operato, dovrebbe essere responsabile del mantenimento di una certa coscienza critica e invece preferisce cavalcare la tigre del malcontento e del rancore, alimentando questa spirale di odio fino a farla diventare un tornado. Tornado nel quale qualcuno vorrebbe anche ci finisse Conte stesso: un tornado di insulti pronto a travolgerlo il prossimo 6 ottobre in occasione della sfida da avversario alla Juventus, senza scongiurarlo ma anzi quasi suggerendolo. Una cosa che ha causato quasi ribrezzo agli occhi di Conte, che purtroppo anche quando tornò nella sua Lecce da allenatore del Bari ha vissuto scene simili.
“Perché lo fanno? Perché fa più presa?”, si chiede il mister con molta amarezza. Centrando probabilmente a metà il bersaglio. Perché ormai quella a cui stiamo assistendo in questi anni, come denunciato venerdì, è una deriva socio-culturale senza precedenti: quella di un Paese che stando a numerosi studi e sondaggi denuncia un gravissimo gap tra percezione e realtà dei fatti, e qui non parliamo di semplice ambito sportivo ma di tematiche di attualità assai più delicate. Perché ormai spiegare i fatti per come sono è diventata una roba da professori, termine ormai usato con un senso dispregiativo che fa veramente rabbrividire, o più semplicemente perché provare a leggere articoli dove si prova ad approfondire certi argomenti diventa qualcosa che affatica gli occhi, specie in questi tempi dove ormai tutto passa e si legge attraverso gli schermi di tablet, smartphone e pc, ai quali notoriamente si dedicano tempi di attenzione più brevi.
Meglio allora affidarsi alle immagini ad effetto, alle affermazioni a effetto e tendenziose, a quelle cose che pensano più a colpire lo stomaco che il cervello, a coltivare l’indignazione piuttosto che la ragione. Un vezzo diventato ormai tipico anche di un certo fronte mediatico, dove se non provi a coltivare un po’ di questa indignazione e non dici alla gente quello che vuol sentirsi dire, forse non sei nemmeno degno di far parte di un talk show televisivo generalista, e dove diventa quasi naturale usare battute su giocatori di colore mettendo in mezzo le banane, come se fosse qualcosa di simpatico. Da lì, purtroppo, abbiamo anche ben capito che è un attimo costruire sentimenti comuni, comunità di pensiero, campagne elettorali…
Il punto di non ritorno, ormai, è già stato ampiamente superato, e non si può negare che la situazione sia sfuggita di mano. Ma per quanto arduo sia possibile, ha ragione ancora una volta Antonio Conte a sottolineare come dalla parte dei mass media ci debba essere una maggiore attenzione a non veicolare determinati messaggi, invitando i direttori a prendere seri provvedimenti nei confronti di chi si rende responsabile di certe nefandezze. Ma con l’amaro in bocca viene da dire che quella di Conte rischia di diventare una pia illusione, visto che non di rado abbiamo assistito a certi direttori che avvallano compiaciuti titoli a dir poco nefandi.
I calci nel culo, insomma, andrebbero dati un po’ a tutti.
Il problema è trovare chi deve assestarli.
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