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Il calcio non ha bisogno di Messi campione del mondo

di Mattia Zangari

La Coppa del Mondo estremizza ogni concetto che abbiamo sul calcio. I flop diventano tragedie che hanno un nome come il Maracanazo, le imprese restano indimenticate e chi le compie entra di diritto nel pantheon del Gioco. Ogni partita è unica, irripetibile, un evento che non rischia di subire la minaccia che la UEFA vede ad esempio nella Super League; al massimo l'attesa (speriamo di no) tra un'edizione e l'altra verrà ridotta da quattro a due anni. Gloria o fallimento, non ci sono vie di mezzo perché si ragiona su scala mondiale e gli spettatori, guidati da chi racconta le gesta dei campioni, vanno alla ricerca del superlativo assoluto. I paragoni hanno ragione d'essere solo se si prendono in esame le varie rassegne, non appena si confronta questa o quella stella per misurarne la grandezza. E' per questo motivo che Lionel Messi domenica 18 dicembre scenderà in campo al Lusail Stadium per vendicarsi della Francia di Kylian Mbappé, campione di questa generazione sulle orme di Ronaldo il Fenomeno per ammissione dello stesso, ma soprattutto per dribblare mediaticamente l'ombra di Diego Armando Maradona, Dios del futbol per antonomasia, che lo segue da quando ha cominciato a incantare con le sue magie. Prima del Pibe, il top incontrastato, sopra i meno 'televisivi' Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas, Juan Alberto Schiaffino e Valentino Mazzola, era Pelé, al quale non servì nemmeno sbarcare in Europa per essere incoronato il 'Re del calcio mondiale'. Tre coppe Rimet vinte, l'ultima delle quali nel 1970 da numero 10 della Nazionale più forte della storia, sono sempre stati argomenti sufficienti per avvalorare questa definizione.

Per decenni il dualismo tra giganti, appartenenti a epoche distanti, è andato avanti fino a che la Pulce, a suon di gol e assist, ha quantomeno aperto un nuovo dibattito che si è sempre scontrato sullo scoglio del trofeo ideato e disegnato dall'orafo e scultore italiano Silvio Gazzaniga. Nel mentre, Messi ha vinto e rivinto tutto con il proprio club di appartenenza, il Barcellona, spartendosi trofei e record quasi equamente con Cristiano Ronaldo, l'altro protagonista dell'immenso libro del calcio, la cui era è finita in un improbabile quarto di finale tra Marocco e Portogallo in terra qatariota. Cinquanta minuti malinconici giocati partendo dalla panchina in cui non è riuscito a segnare il suo primo gol in una fase a eliminazione diretta. Incredibile a dirsi vista la fama di capocannoniere implacabile di CR7, una statistica che lo ha accomunato a Messi fino al 3 dicembre scorso, giorno di Argentina-Australia, quello della 1000esima partita in carriera del sette volte Pallone d'Oro. Come a ribadire che il Mondiale è più grande di ogni giocatore, la competizione che forse sintetizza al meglio questo sport meraviglioso che rimane di squadra. Ogni quattro anni lo spirito del Mondiale si incarna in un leader che, per quel che riguarda questa edizione, si rivelerà a miliardi di spettatori tra tre giorni, anche se qualcuno si è già affrettato a eleggere Messi, all'ultima partita in assoluto su questo palcoscenico, come il giocatore designato alla gloria eterna. Solo per innalzarlo fino al Paradiso come il più grande di tutti i tempi in caso di trionfo o per vederlo scendere all'inferno come e più giù di Ronaldo nell'ipotesi in cui dovesse consumarsi il suo personale dramma sportivo. La finale del Mondiale come la fine del mondo: c'è chi attorno alle 18-19 italiane aspetta il miracolo di Lionel, chi altrettanto semplicemente che la storia del calcio ricominci. 


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