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Il discorso da Premier

di Christian Liotta

Gabriele Gravina, presidente della Figc, si è goduto a ragione il suo giorno di gloria. Magari definirlo così è un po’ esagerato, però è indubbio che quella di lunedì sia stata una giornata che lo ha visto protagonista su tutta la linea. È passata in toto la sua linea, nel corso del Consiglio Figc nel quale sono state delineate le linee guida da seguire in caso di nuovo stop del campionato: non c’è stato verso per la Lega di Serie A di far valere le proprie ragioni emerse nell’assemblea di venerdì, dove è stata votata la proposta, comunque, va detto cervellotica e molto rischiosa, di bloccare le retrocessioni nel caso in cui la situazione sanitaria imponesse un nuovo alt alla disputa del campionato. Schiacciati nella loro percentuale estremamente ridotta, i rappresentanti della massima serie hanno dovuto ingoiare il rospo dei playoff, dei playout e dell’algoritmo graviniano per stabilire qualificate alle coppe, retrocesse in B o in C, ed eventualmente la squadra campione d’Italia. Un trionfo per l’ex presidente del Castel di Sangro, che ovviamente sottolinea come abbia prevalso il merito sportivo come da richiesta dell’Uefa, e si dice sicuro che stabilire le eventuali partecipanti alla post-season sarà una fatica inutile, perché convinto che il campionato avrà naturale chiusura alla data prevista del 2 di agosto.

Tutti contenti, dunque? Evidentemente no, ma del resto nel mondo del calcio risulta pressoché impossibile trovare un solo momento storico nel quale tutte, ma proprio tutte le componenti, siano mai state davvero d’accordo. C’è chi, in piazze come Vicenza, Monza e Reggio Calabria, festeggia per aver visto legittimati gli sforzi fatti sin qui con la promozione d’ufficio dalla Serie C alla Serie B. Ma c’è chi esce davvero con il dente avvelenato da Via Allegri è ovviamente la massima serie, che dopo quanto accaduto lunedì ricava una sorta di frustrazione nemmeno troppo latente derivante dall’avere un peso politico decisamente basso specie se ponderato all’apporto, in termini in primo luogo economici, offerto all’intero ecosistema calcistico italiano. E a farsi portavoce di questo malcontento, arriva, poche ore dopo la ratifica delle decisioni del Consiglio Figc, è Beppe Marotta, ad dell’Inter, che offre ‘urbi et orbi’ la sua visione della situazione. Lui che ha provato in ogni modo a mettere un argine di fronte all’ondata di voti contrari alla risoluzione della Serie A finendo però puntualmente respinto, e che in poche parole, “abbiamo dovuto ripartire”, ha voluto sottolineare quella che è una posizione non certamente entusiastica sul ritorno in campo e sul calendario finale super compresso. Ma su questo punto torneremo.

Perché, nel tracimante fiume di parole di Marotta, è impossibile non chiedere aggiornamenti sullo stato di salute della squadra, ma anche e soprattutto sul mercato che attende l’Inter. Tanti, tantissimi i nomi oggetto del fuoco di fila delle domande, alle quali l’ad interista ha risposto a volte in modo chiaro, a tratti dicendo e non dicendo, qualche volta lasciandosi andare a qualche arzigogolo, come quando, parlando di Sandro Tonali, quello che rappresenta l’obiettivo principale della sessione che aprirà ufficialmente a settembre di Viale della Liberazione, ha fatto un piccolo simposio sulle necessità dell’Inter in fase di costruzione della rosa per poi lasciarsi andare al rilancio dell’intervistatore che gli rimproverava l’aver eluso il tema centrale della domanda con una risata stile Joaquin Phoenix in ‘Joker’. Tanti nomi, tante dichiarazioni, un tentativo sommario di sintesi: c’è soddisfazione per essere riusciti ad ottenere una somma importante per Mauro Icardi, anche perché per un po’ non sarà più tempo di affari a nove cifre come fu ad esempio per Neymar, come ci sarà soddisfazione sia che Lautaro Martinez resti all’Inter sia che alla fine il Barcellona riesca ad avere la meglio, magari dopo il 7 luglio e possibilmente senza formule chimiche strampalate in materia di contropartite, perché comunque l’intenzione è quella di sostituirlo con un nome di primissimo rango. Ma intanto, il Toro resta qui.

Parlando di nomi per il futuro, per Sandro Tonali è arrivato un primo sì, mentre per tante altre voci (Cavani, Zaniolo, Chiesa) è arrivata una sostanziale bocciatura. Ma non dimentichiamo che acqua sotto i ponti comunque ne deve passare ancora tanta, e soprattutto che Marotta è colui che ancora a metà gennaio parlava di trattative ancora non imbastite per Christian Eriksen… Ah, a proposito, sul danese la fiducia resta elevatissima, anche se ora sta la palla per l’inserimento definitivo del centrocampista ex Tottenham, complicato indubbiamente anche da questo prolungato stop, passa sostanzialmente a mister Antonio Conte. Capiremo poi quanta fiducia ci sarà nei rientranti Radja Nainggolan e Ivan Perisic (più per il primo che per il secondo, forse) e quanto davvero Suning riuscirà ad alzare l’asticella delle ambizioni, ora che quattro anni di approdo alla guida del club nerazzurro sono passati ed è arrivato, probabilmente, il momento di chiudere la fase di start-up e cominciare a vedere non solo utili finanziari, ma anche utili dal punto di vista sportivo.

Ed eccoci, infine, alla fase calda dell’intero discorso marottiano, quello della delusione sfogata senza mezzi termini per il trattamento riservato in Figc alle posizioni della divisione massima del calcio. Che insieme è uno sfogo per come il mondo del calcio, visto dalla prospettiva dell’Inter, ha vissuto la situazione del lockdown e la ridda di voci che si sono susseguite una volta deciso lo stop delle ostilità, non prima di aver rischiato di vedere uno Juventus-Inter a porte aperte con annessa la rabbia del presidente Steven Zhang, che mai come adesso si può dire che avesse capito prima degli altri a cosa si stava per andare incontro. Posizione che non si ammorbidisce nemmeno adesso, visto che la provocazione di mandare in campo i Primavera, a voler leggere bene tra le righe, non è stata poi catalogata come tale fino in fondo da Marotta; e che sfocia in un amaro sfogo verso la governance del pallone, un melting pot di stakeholder che sostanzialmente finisce con il far saltare per aria le proporzioni e il peso specifico delle varie componenti.

Nella sostanza, Marotta chiede che Lega Serie A, fornitrice del 90% dell’intero fatturato dell’ecosistema calcio, venga riconosciuta anche politicamente come un’entità che possa godere di una ampia e legittima autonomia gestionale, e che possa dare al calcio professionistico nazionale una visione d’azienda, distanziando bene quelli che sono i propri obiettivi di business da quelli legati alle altre categorie. Non insomma un’autonomia di facciata come quella alla quale evidentemente si riferisce qualche esponente di lungo corso quando commenta questa rivendicazione del dirigente nerazzurro, ma un organismo nuovo, quasi una newco se vogliamo usare termini più moderni; uno stato libero che abbia potere decisionale sui suoi aspetti funzionali principali, primo su tutti la redistribuzione dei proventi economici. Giustamente, Marotta indica come esempio quello della Premier League, il torneo nato dall’iniziativa dei club dell’allora First Division inglese che nel febbraio del 1992 decisero di andare da soli, staccandosi a livello manageriale dalla English Football League, e che grazie ad una visione manageriale di lunga gittata e management forti, ha saputo in breve tempo imporsi come il torneo più importante del mondo.

Si può legittimamente obiettare che è molto difficile implementare un sistema e un modo di pensare come quello inglese in un mondo come quello italiano, noto per le beghe da cortile, l’individualismo spesso sfrenato, l’incapacità cronica di saper fare sistema. Ma la rivendicazione di Marotta è legittima, anzi potrebbe anche suonare come un appello a tutti i club ad andare oltre il proprio orticello e saper fare della Serie A un bene comune. Un discorso da premier, inteso non soltanto come Premier League come punto di riferimento, ma anche un invito alla coesione e all’unità di un intero sistema, come tante volte abbiamo sentito, specie di questi tempi, sentire da parte dei primi ministri della Repubblica. Anche se la domanda: ‘Vedremo mai una nuova fase nel calcio italiano?’, ad oggi, non appare comunque foriera di risposte positive all’orizzonte.

Ps: Sempre a proposito di beghe da cortile, Marotta ha ribadito a chiare lettere la sua volontà di rimanere e vincere all'Inter. Non che ci fosse davvero bisogno, però, repetita iuvant, amano dire i latinisti...

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