Il livore dei nemici
Ogni volta che l’Inter vince (e bene) una partita importante, arriva puntuale la contraerea dei commentatori falsamente elogianti. Non ce la fanno a negare l’evidenza. Innanzitutto il risultato, che parla sempre da sé. Ma anche la qualità del gioco collettivo, dello spirito di sacrificio, e perfino le prodezze dei singoli. Si spingono i più arditi ad ammettere una imprevedibile tenuta di questo allenatore ragazzino. Ma poi, quando ormai pensi che i pregiudizi stiano per cadere, infilano una o più cattiverie, aggettivi alla rinfusa, frasi acide e valutazioni che puntano a ridimensionare, delimitare, derubricare. Perfino nelle pagelle dei quotidiani sportivi e non, potremmo sbizzarrirci a trovare eco di queste prelibatezze stilistiche. Non faccio nomi, tanto li conoscete alla perfezione. E’ il “livore dei nemici”, riedizione esacerbata di quel “rumore dei nemici” coniato da Josè Mourinho nell’Anno di Grazia. Le spiegazioni sono tante, e forse inutili. Non mi va di offendere, specialmente in giornate di soddisfazione e di ragionevole fiducia nel futuro prossimo e soprattutto a medio-lungo termine.
Alla base di tutto probabilmente c’è il nostro modo di essere. Intendo di noi tutti, tifosi, giocatori, società. Poco inclini al ruffianesimo, all’ipocrisia, persino all’autoelogio. Sobriamente bauscia, cerchiamo quasi sempre di non esaltarci nella vittoria, e di non deprimerci troppo nella sconfitta. Siamo elitari, orgogliosi, ironici, non per niente amiamo ricordare ogni giorno l’avvocato Prisco (proprio in questi giorni che ci rimandano al suo passaggio in un’altra dimensione, dalla quale peraltro ci sta vistosamente aiutando). Noi siamo l’Inter, e voi non siete un c… (parafrasi arbitraria e grezza di una celebre battuta nel “Marchese del grillo” del romano – guarda un po’ – Alberto Sordi). Il “livore dei nemici” è un fenomeno mediatico da studiare. Interessante persino dal punto di vista antropologico e sociologico, visto che comporta, di conseguenza, il contagio delle altre tifoserie, che si abbeverano a queste fonti inquinate da una partigianeria cattiva, ai limiti della scorrettezza. L’esempio più banale, dopo Inter-Napoli, è il giudizio assolutorio nei confronti dell’arbitraggio di Rizzoli, ignorando non solo il fuorigioco di Pandev al momento del gol, ma anche l’espulsione mancata di Behrami (in una fase decisiva per la partita), l’ammonizione ridicola di Handanovic, le interpretazioni a dir poco singolari del regolamento. E’ ormai talmente prevedibile la situazione nella quale i nostri si trovano a giocare in situazioni di forte tensione emotiva, come nelle partite di cartello, che ho la netta sensazione di una certa assuefazione generale, persino del nostro pubblico, che effettivamente si inquieta, protesta, ma non più di tanto. Giusto per dovere, o per solidarietà. Ma niente di più. Potrebbe apparire un fenomeno di maturazione del tifo, e invece forse è solo rassegnazione al peggio.
La pressione mediatica alla quale è sottoposta l’Inter dipende in larga misura dal peso politico e societario dei competitor, ossia il Milan di Berlusconi, la Juve di Agnelli, e adesso anche il Napoli di De Laurentis. Non che Moratti sia poco visibile, ma il suo stile è profondamente diverso, da sempre. Ed è anche il motivo per cui ci piace, ci appartiene, anche nelle rare volte in cui non ne condividiamo gli atteggiamenti e perfino le decisioni. Più l’Inter inceppa il meccanismo di esaltazione della grandezza, vera o presunta, delle altre squadre, più si accentua l’irritazione di grandi e piccole firme, di telecronisti, di moviolisti, di commentatori da talkshow di provincia. Lo sappiamo e siamo abbastanza attrezzati alla bisogna. Ma il fastidio resta immutato. Ci piacerebbe, insomma, che almeno quando ce lo meritiamo, arrivasse un apprezzamento semplice e onesto, il che non significa desiderare un ossequio acritico, ma una corretta valutazione, utile anche per indirizzare i successivi passi della squadra e di chi la dirige.
Sembra infatti che tutti siano in attesa del prossimo flop, lo desiderano, si preparano a raccontarlo. Già in queste ore si esalta la forza della Lazio in casa, e prima di sabato ascolteremo e vedremo cose che non appartengono alla normale costruzione mediatica di un evento sportivo. Non credo ci sia una soluzione, anzi. In fin dei conti tale evidente livore (la cui massima rappresentazione mi pare si materializzi nei pezzi e nelle elucubrazioni televisive di Sconcerti) ci rafforza, ci rinsalda, e penso che questo sia il sentimento anche dei giocatori, vecchi e nuovi lottatori nerazzurri. Tutti per uno, quasi teleguidati da Stramaccioni, il che fa un certo effetto, tenuto conto dell’esperienza dei reggitori dello spogliatoio e della sorte toccata ad alcuni fra i più prestigiosi nomi in panchina, nel passato più o meno recente. Bene così. La massima soddisfazione infatti, il giorno dopo una vittoria importante, è immaginare il fastidio ulceroso che abbiamo provocato in molti. Fino alla prossima, naturalmente.
La vicenda di Sneijder in questo senso è altrettanto esemplare. Personalmente non ce la faccio quasi più a leggerne gli sviluppi, figurarsi poi se ho voglia di parlarne. Mi ricorda una situazione classica dal sapore sgradevole. Quando cioè una coppia sposata da tempo, di amici carissimi, ti rivela che è tutto finito e che stanno per separarsi. Te lo raccontano uno all’insaputa dell’altro. Ognuno ti dà la sua versione, contando sulla tua amicizia, sapendo di potersi fidare. E rinfacciando le colpe all’altro, come è naturale. Tu ascolti, in pieno imbarazzo, ricordi i bei momenti trascorsi insieme, esprimi parole di circostanza (“Eravate proprio una bella coppia, che peccato… ma siete sicuri? Vabbé, comunque la vita continua, a volte quando si chiude una porta si apre un portone…”), e speri solo che la smettano di litigare e di farsi del male. Ecco. Mi resta il rammarico di non poter sapere davvero quanto bello sarebbe stato vedere Wesley guidare la cabina di regia di questa nuova grande Inter in gestazione. Ma saprò farmene una ragione, a patto che la causa di divorzio lasci da parte gli amici e i parenti, e anche i colleghi. Andiamo avanti. Andiamo oltre. Amiamola, come sempre.