Il morbo infuria, il pallon (non) ci manca
Lunedì 25 maggio. Questa è la deadline definitiva che la Uefa ha fissato per le Federazioni associate affinché queste ultime presentino quelle che sono le scelte definitive per stabilire se, e in che modo, intendono chiudere questa tormentata stagione 2019-2020. Monito perentorio, quello dell’avvocato sloveno Aleksander Ceferin, numero uno del calcio europeo, che chiede non solo tempi e modalità di ripartenza, ma anche le motivazioni ben dettagliate della propria decisione nel caso in cui una Federazione, come già avvenuto per esempio in Belgio e nei Paesi Bassi, deciderà di chiudere anticipatamente la contesa, insieme alla selezione dei club che parteciperanno alla stagione continentale 2020-2021. Poco più di un mese, quindi, per dire chiaramente se si vuole andare avanti chiudendo il calendario durante l’estate, con la conseguenza di dover giocare forzatamente una volta ogni tre giorni con tutti i rischi conseguenti, o se invece si preferisce arrendersi all’evidenza e chiudere la saracinesca.
Una data, quella del 25 maggio, che però per il calcio italiano rischia davvero di diventare una tagliola, in quanto arriva solo sette giorni dopo quella data segnata in rosso praticamente da tutte le componenti del pallone nazionale, quel lunedì 18 maggio nel quale, si auspica per non dire che probabilmente si stanno già organizzando dei rosari collettivi, possibilmente attraverso una conference call o una diretta Instagram che ormai va tanto di moda, dovrebbe arrivare il fatidico via libera alla ripresa degli allenamenti collettivi per le squadre di calcio. Condizione necessaria che però, visti gli ultimi sviluppi, diventa non sufficiente per poter pensare che di lì a poco si possa ricominciare a vedere il pallone rotolare in stadi inevitabilmente deserti e completamente asettici. La storia è nota: dopo l’annuncio del nuovo Dpcm da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in merito all’avvio della cosiddetta (eufemisticamente cosiddetta) ‘fase 2’, si è scatenato un autentico pandemonio nell’ambito calcistico, visto che sono uscite frustrate le ambizioni dei club di poter riavviare anche solo la pratica degli allenamenti per gli sport di squadra, mentre è stato concesso il via libera agli atleti delle specialità individuali. Di più: il Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha deciso di metterci il carico da novanta, definendo nella sostanza latente il protocollo varato dalla Figc per la garanzia della ripresa delle attività nel totale rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie e invitando a guardarsi bene dal dire che riprendere gli allenamenti porterà come conseguenza riprendere la stagione agonistica.
Chi con delusione più o meno velata, chi con sbigottimento, chi non riuscendo a celare la propria rabbia, tutti hanno dovuto prendere atto e mettere in saccoccia questo nuovo fulmine a ciel sereno, che aggiunge ulteriore incertezza in un mondo dove ormai di luoghi comuni del tipo ‘navigare a vista’ e ‘nulla sarà come prima’ se ne ha ormai ben donde. Intendiamoci: non che, guardando nel complesso il resto d’Europa, il quadro sia più chiaro, anche perché la stessa situazione sociale pare mutare ad ogni colpo d’aria, pardon, di tentativo di mettere anche solo il naso oltre la barriera nel tentativo di avvicinarsi ad una parvenza di normalità. Giusto per citare i fatti più recenti: in Germania, la Bundesliga pare volere andare avanti per la sua strada puntando al ritorno in campo il nove maggio con tanto di allenamenti già partiti; la stessa Premier League è pronta a presentare le linee guida per la propria ripartenza, ma contemporaneamente Edouard Philippe, primo ministro francese, annuncia davanti all’Assemblea Nazionale che la Ligue 1 non può andare avanti (con rassegnazione, tra gli altri, del povero Mauro Icardi che vede sfumare per l’ennesima volta, per cause di forza maggiore, la possibilità di poter conquistare il primo titolo personale, e probabilmente anche dell’Inter che a bocce transalpine ferme deve chiedere al Paris Saint-Germain di stringere i tempi nella propria decisione sul riscatto del giocatore). E parliamo del primo campionato delle ‘Top 5’ che prende una decisione simile, non un campanello d’allarme di poco conto.
Ma sono tutte sentinelle, queste, di intenti bene o male fermi, quelli che invece nel nostro Paese sembrano mancare, in ambito generale come e soprattutto in ambito calcistico. L’esplicito invito alla prudenza racchiuso nel nuovo decreto è un invito che, in un modo o nell’altro, il calcio a questo punto non può permettersi di recepire: perché il sistema calcio subisce bene o male le stesse ripercussioni del sistema aziendale italiano ma con tempistiche molto più strette e conseguenze decisamente deleterie. Non ci si puà permettere ancora di brancolare nel buio mentre all’orizzonte c’è la scadenza del pagamento della nuova tranche dei diritti tv che però i broadcaster titolari, per ovvie ragioni, non intendono onorare con l’ovvio rischio di cause legali già sulla griglia di partenza. Nel frattempo, però, le ultime ore sono state contraddistinte da un fuoco di fila di dichiarazioni, in un tutti contro tutti generale.
Dalle accuse di ‘sentenza politica’ scaturite da certi giornalisti dalle quali il Ministro Spadafora è stato chiamato a difendersi, passando per l’Assocalciatori che contesta apertamente quella che definisce una discriminazione operata nei confronti dei calciatori professionisti, denunciando il fatto che i giocatori sarebbero così chiamati ad allenarsi solo a titolo personale magari nei parchi pubblici, col conseguente rischio nemmeno troppo remoto di un ‘effetto safari’ con l’inevitabile curiosità derivante dalla presenza di personaggi tanto famosi tra gli altri avventori e tutto ciò che ne deriverebbe (e conseguente replica diretta ancora di Spadafora che rimanda tutto alle decisioni del comitato tecnico-scientifico), fino alle richieste di ripartenza a tratti anche veementi da parte dei rappresentanti della Lazio e al presidente della Figc Gabriele Gravina che deve barcamenarsi in questo marasma e difende apertamente la bontà del protocollo di sicurezza che però fa tentennare i medici della Serie A viste le eventuali conseguenze della comparsa di un nuovo caso di contagio.
Un tornado continuo di voci, di polemiche, di dichiarazioni e controdichiarazioni, tutto legato al calcio. Ma ciò che continua a mancare, in tutto questo, è proprio il calcio. Quel calcio che manca ma che ormai non sembra più mancare più di tanto alla gente: sarebbero stati, questi, i giorni della risoluzione della fatidica volata per il campionato e quelli delle sfide cruciali per l’Europa, solo domenica scorsa si sarebbe dovuta giocare la partitissima tra Juventus e Lazio. Ma di tutto questo, nessuno ormai a quanto pare se ne ricorda più; e soprattutto, in pochi sembrano disposti ad oggi a voler rivedere. È di lunedì il sondaggio di una nota casa di scommesse secondo il quale il 64%, praticamente due italiani su tre, è contrario alla ripartenza del campionato, un sentimento condiviso da alcuni club e che pare covare sotto la cenere di altre componenti.
“Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”: Arnaldo Fusinato, poeta e patriota veneto, ne ‘L’ultima ora di Venezia’ esprime in questo celebre passaggio la rabbia per la fine repentina della Repubblica di San Marco e il ritorno nel giogo austriaco. Non sappiamo se alla fine anche sui campi di calcio sventolerà bandiera bianca o se alla fine i buoni propositi avranno compimento, di certo la situazione è grave e tale, se non peggio, si prospetta a medio-lungo termine. E mentre in Italia tanto si ironizza sul termine ‘congiunto’, quello che non si riesce proprio a congiungere e a far collimare sono gli intenti di tutti: non ci sono puntini da unire, semmai da trovare la soluzione ad un intricatissimo enigma. E chissà se ci sarà qualcuno tanto bravo quanto Edipo nel risolverlo.