Il prezzo di quella diversità che non vogliamo più pagare
La quasi inevitabile débacle nella partita di ritorno di Coppa Italia con la Roma, con l'ormai consueto preambolo di ulteriori defezioni, nel caso di specie last minute, col forfait di Cambiasso, non ha fatto altro che integrare un aggiuntivo cumulo di macerie da ammonticchiare a quelle che residuano dalla stagione in via di conclusione. Inevitabile come l'ennesima dimostrazione della propria fragiltà che la squadra ha palesato mercoledì sera dopo il primo gol subito, nella totale incapacità di fare fronte, non tanto e non solo sul piano tecnico ma soprattutto su quello della cattiveria, del carattere e della malizia, all'avversario di turno. Una squadra da ripensare, un impianto da riformare profondamente. Ma il problema vero è da dove iniziare il percorso di ricostruzione?
Poichè rovistando tra le macerie occorre anche far la fatica di comprendere quali parti - organico, pezzi di società, medici e preparatori atletici - sono ancora integre, accreditate e quindi riutilizzabili per dar vita a un nuovo progetto. In questo stato di afflizione generalizzata anche l'esame analitico del peso nel disastro delle diverse componenti che hanno concorso a deteminarlo diventa quanto meno suscettibile di errori di valutazione.
Iniziando dal Mister, il destino di Andrea Stramaccioni - sebbene prevalgano prese di posizione dilatorie - è segnato e si girarà pagina in funzione di un tecnico in grado di assicurare un bagaglio di esperienze pari alle necessità di un top team a cui per statuto è negata la dimensione della tranquillità. Sul suo lavoro ai facili entusiasmi iniziali hanno fatto da contrappeso, gradualmente, giudizi genericamente intonati a un'endemica inadeguatezza. Pagherà comunque oltre le sue responsabilità, nessuno a nostro avviso potrà dire che se l'è giocata male. Ha offerto quanto era tutto sommato ragionevole attendersi e di lui sentiremo ancora parlare molto.
La conta sui giocatori da Inter, su quelli simbolo dell'annus horribilis, su quanti se ne andranno o spalmeranno, ci accompagnerà col suo carico di nevrastenie per qualche mese. Contrari per natura alle ghigliottine, rimaniamo convinti che diversamente contestualizzati non siano pochi gli uomini dell'attuale rosa con cui ripartire con convinzione a luglio. L'esempio della Juventus che si avvia a bissare lo scudetto a maggio testimonia di come un patrimonio tecnico in disarmo, sotto la cura di Antonio Conte è divenuto protagonista di un ciclo vincente. Di certo, invece l'incidenza degli infortuni nel corso della stagione ha vieppiù manifestato un carattere patologico che non può che rimandare al lavoro di chi si è occupato della preparazione atletica, delle cure e della riabilitazione. Così come appare di evidenza accecante che, in generale, la squadra si è espressa con una condizione non brillante per tutta la stagione con la limitata parentesi che è concisa con il filotto di 10 vittorie consecutive.
Ma, da quanto si sa, la società è pronta a mettere mano sulla questione con risolutezza draconiana. Più imperscrutabile è, invece, il disegno del Presidente in relazione ai ruoli dirigenziali. Al di là delle figure specifiche - è assolutamente chiaro che da tempo su Marco Branca sia puntato il mirino della critica e che nell'ambiente viva un presente di scarsissima popolarità - è venuto il momento di ripensare un modello organizzativo che, di fatto, non è altro che il trascinamento di quello assai fortunato capace di produrre risultati straordinari ma che basava su risorse economiche non più disponibili. "Serve l'uomo forte", ha sentenziato il capo tifoso Franco Caravita pochi giorni fa. Serve, è la nostra tesi da tempo, il grande manager provvisto di esperienza di calcio e di deleghe.
Non è più tempo per direttori generali di impronta amministrativa come lo sono stati in un passato diverso Moretti e Paolillo, peggio che mai se indiziati di poca affettività per le tinte nera e azzurra come quello attuale. Né ,a nostro avviso, a fare da intercapedine tra Massimo Morattti e l'high management, potrebbe collocarsi oggi - nessuno se ne abbia -, in questo preciso momento storico, un uomo di strordinaria rappresentatività, immagine e prestigio come fu il mai troppo rimpianto Giacinto Facchetti. Serve il vertice di una nuova catena di comando in grado di razionalizzare e disciplinare le azioni della società con perizia e risolutezza e di guardare all'esterno con una diversa strategia.
Perché c'è molto da fare su quel piano che nello sport dovrebbe rappresentare un aspetto non fondamentale, quello della "politica", che invece nel calcio, ed in particolare quello che si gioca dalle nostre parti, condiziona e parecchio gli esiti delle attivita' delle società. C'è da rimettere in equilibrio quel piano, che attualmente inclina e non secondo il solo Bonolis o quell'oscura selva di prevenuti che abita San Siro ogni quindici giorni, verso chi da tempo ha saputo -sì, anche saputo - manipolare i meccanismi che regolano quegli stessi esiti con la spettacolarità che luccica agli occhi di un bambino, come dimostra la situazione determinatasi in tribuna a Firenze 2 settimane or sono. Un piano inclinato che, per converso, scola verso Appiano e dintorni una massa liquamosa e putrescente fatta di conclamata e legalizzata ostilità che mina alla radice la riuscita di qualsiasi possibile, anche la più azzeccata, riaggregazione tecnica disegnata in corso Vittorio Emanuele.
Finchè l'arrière pensee del timore della mala politica, giustificato da decine e decine di casi "isolati" univocamente indirizzati , rimbalzarà sempre più in alto, come una palla magica, nelle nostre domeniche, un morbo invalidante continuerà a minare certezze, serenità e risultati. Per questo, lo diciamo una volta di più, da lì occorre ripartire, è quella la prima malattia da curare. E' nel nostro destino quello di non essere - mai lo saremo - un potere forte del calcio italiano. Non abbiamo mai brigato, tramestato per esserlo, e in quello c'è anche il segno di quella diversità di cui ha fatto cenno di recente il capitano Javier Zanetti, patendo peraltro il consueto sbeffeggio di quanti, nella comunicazione innanzitutto, hanno interesse a fingere di non capire per poter perpetuare nella somministrazione di una realtà artefatta e mistificata.
Ma la nostra diversità comprende un prezzo oggi troppo alto che non vogliamo più pagare. Quello di dover anche sopportare la sudicia commistione tra le nostre inadempienze, di cui ci facciamo carico con trasparenza e lealtà, e le malversazioni che negli ultimi campionati hanno spostato decine e decine di punti. Per non parlare dello spettacolo di vedere altri spartirsi il bottino, fregarsi le mani e consentire il plateale sghignazzo delle truppe cammellate a utilizzo mediatico. A libro paga e irrrobustite da volontari e avventizi, pronti, pelosamente, per deficit di personalità o perché "tengono famiglia", a stare ben allineati e coperti sempre dalla parte giusta.