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L'incapacità interista di autocelebrarsi

di Lapo De Carlo

I giorni che hanno portato Thohir all’Inter e  sancito la permanenza di Moratti con la veste di presidente onorario hanno avuto anche una vicenda parallela, riferita al tiepido addio riservato dalla curva a Moratti  Definirlo solo freddo  però non è esatto.

Non so se molti interisti e gli esponenti della Nord abbiano compreso perché, in un momento come questo, sia stato un errore essere coerenti con le proprie valutazioni sull’operato del  presidente. Perché è di questo che si è trattato: di coerenza che la curva ha ritenuto di mettere in atto con uno striscione che sembrava più arrabbiato che congedante. E’ stato un errore, figlio di una cultura che negli ultimi trenta anni ha inaridito sempre più il rapporto con gli attori della società.
E possibile che se Moratti avesse lasciato nel 2003 avrebbe ricevuto un saluto migliore (non ci voleva molto) di quello che ha trovato oggi. Dopo aver vinto tutto, i tifosi sono rimasti più che delusi dall’incapacità imprenditoriale che ha avuto la società nel gestire il successo prolungato.
Il gelido commiato che il tifo nerazzurro ha riservato al massimo esponente dopo 18 anni trova riscontro soprattutto nel fatto che era acido. Come quei mariti e mogli che cercano di fare pace parlandosi a mente fredda e, dopo dieci minuti che discutono con calma, cominciano a rinfacciarsi di tutto. Insomma non ce la fanno a chiudere del tutto la faccenda. E l’intempestività con cui era ricordato a Moratti quanto bene e quanto male avesse fatto in quasi un ventennio era stonata come un altro rimprovero dopo aver fatto pace. Del tutto incongruo con l’emotività del momento.

Io credo che questo parta dall’incapacità dell’Inter di autocelebrarsi.
Mi ha fatto impressione vedere l’addio di Deki Stankovic a San Siro prima di Inter-Genoa.
E’ stato un saluto carino. Niente più. Parliamo di uno che ha vinto tutto e che una società come l’Inter aveva la possibilità di salutare con enfasi maggiore.
Ci sono centinaia di modi creativi per esaltare la gloria di una società. In molte parti del mondo, in parecchi sport ci sono giocatori molto meno noti che hanno ricevuto ovazioni, sorprese dei tifosi allo stadio, partite d’addio e altro, perché la cultura di quelle società partiva dal valore che un singolo atleta aveva avuto nella storia del club.
Noi invece dimentichiamo tutto e salutiamo con poca enfasi, come se fossimo incattiviti, imbruttiti dal solo valore che si traduce nei colori della maglia. Di molti, troppi giocatori che hanno vestito questa maglia moltissimi nemmeno ricordano quando. E non perché non abbiano fatto bene ma perché la memoria è andata in esaurimento. Parliamo di giocatori. Figuriamoci se parliamo di Massimo Moratti.
La curva aveva la possibilità di dire anche solo un “grazie presidente” e fare uno striscione memorabile, come quelli che prepara per i derby, l’intero stadio e tutti gli inter club avevano l’opportunità di salutare inventandosi una coreografia che avrebbe fatto il giro del mondo.
Invece la milanesità, quella che guarda al sodo e poca alla forma, ha consegnato alla storia un avvicendamento quasi ministeriale, condito da dibattiti tra nostalgici e censori di Moratti.  
L’Inter è una comunità, qualcuno la definisce addirittura una famiglia, ma che famiglia è se saluta e manda in dissolvenza gli uomini più rappresentativi che lasciano la società o che vanno a ricoprire un ruolo simbolico e meno esecutivo, come nel caso di Cordoba e lo stesso Moratti?
Se svaluti il tuo passato, anche recente, svaluti anche il presente. Il prestigio di un club non è fatto solo dalle vittorie, si costruisce dal suo interno, si matura attraverso il rispetto per i personaggi e si consolida con un commiato degno di un club che davanti alle vittorie mette sempre prima la sua storia.


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