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L'ultimo giorno di Icardi, il primo anno di Conte

di Lapo De Carlo

Il 31 maggio ha registrato un addio e un anniversario: la cessione ufficiale di Mauro Icardi al PSG e il primo anno di Conte all’Inter.
Rinnovo il dispiacere per l’incredibile involuzione del rapporto con Icardi, terminato tra i festeggiamenti virtuali dei tifosi che hanno esultato alla notizia per la sua cessione.

Da più di un anno non è possibile parlarne serenamente, come se la sola evocazione del nome fosse un affronto, una provocazione.
Il dispiacere nasce dai presupposti che è insensato odiare un giocatore che ha fatto parte dell’Inter, segnato tanto e ne è stato capitano. Si può gioire per l’addio di Wanda Nara, essere soddisfatti per i soldi ricevuti dalla cessione ma essere addirittura felici, con quella rabbia in corpo che non permette di affrontare l’argomento se non facendo una medioevale caccia alle streghe, non ha senso.

Oggi la gente odia troppo, odia con facilità, disprezza esasperando qualunque argomento ed è un sentimento che andrebbe riservato a cose ben più importanti, a prescindere dalla natura passionale di cui si nutre il calcio. Tuttavia se non siamo bestie, deve essere possibile parlare di Icardi senza abbruttirsi e io rivendico il diritto di essere semplicemente dispiaciuto per questo e per una storia che all’Inter si ripete, con spartiti e uomini diversi. Al netto di una colpa che è senza dubbio stata, in questo caso, più della moglie procuratrice.

Nel caso specifico l’ondata di volgarità che ha portato Wanda Nara, con un atteggiamento naif che ha esposto al ridicolo un settore conservatore come il calcio, radicato nella sua tradizione, nei riti e i simboli, è il peccato originale. Le apparizioni televisive sguaiate, quell’aria più adatta ad un programma di Barbara D’Urso o la De Filippi, le foto infantili seminude, le mezze frasi prese in prestito ed altre partorite da se, pronte a dire tutto e il contrario di tutto, sono state l’immagine perfetta di una donna capace di manipolare la realtà, consapevole che questo le garantiva anche uno spazio in televisione. I mezzi di informazione l’hanno sdegnata, a volte irrisa ma non sono mai riusciti a farne a meno, mostrando la debolezza di un mondo incapace di ripensarsi. Più qualcosa è cafone e più gli si concede la ribalta. Questa è ipocrisia.

Icardi ha esposto un silenzio ininterrotto, inadeguato, incapace di sovrapporsi alla moglie e, come lei, di capire la portata degli eventi e delle loro azioni. Ciò nondimeno Icardi ha segnato 111 gol in 188 partite e non sono gol rinnegabili, come non lo sono le esultanze.

Mi dispiace si rinnovi una maledizione che però traduce una cultura societaria che non condivido, in riferimento ai tanti grandi attaccanti della storia nerazzurra. A partire da Meazza, che venne ceduto al Milan (all’epoca chiamato Milano), passando da Boninsegna, ceduto alla Juventus in cambio di Anastasi, con conseguenze nefaste, Altobelli che ebbe la stessa sorte, Ronaldo inseguito dai tifosi fino all’aeroporto con la polizia a proteggerlo, ora Icardi e, nelle ultime settimane di ipotetica cessione di Lautaro, a Radio Nerazzurra abbiamo letto tanti ascoltatori interisti ridimensionare l’argentino.

Il paradosso dell’Inter, club dalle grandi ambizioni, gestito spesso in modo familiare e umano, come nel caso di Angelo Moratti con Angelillo, ma in alcune situazioni,  risoluto, meccanico, metallico dunque distante. Ci sono giocatori e situazioni che meritano una gestione più accorta, che tenga conto di ogni valore, a partire dalla tradizione del club. Per questo mi ricollego ad Antonio Conte, partendo dalla premessa che è indiscutibilmente un grande allenatore, degno di stima.  

Amo l’Inter e conosco la sua storia e penso che ogni tifoso dell’Inter ma anche i giocatori e i dirigenti dovrebbero apprenderla per poter rendere al meglio. Può essere che Conte e Marotta conoscano l’Inter piuttosto bene ma da avversari, per questo quando sono arrivati all’Inter hanno tentato di “juventinizzarla” nel senso migliore del termine.

La logica non è molto diversa da quella che Lippi tentò di imbastire, quando portò in nerazzurro anche Jugovic e Peruzzi ma senza avere un dirigente come Marotta ad affiancarlo. Conte ha rimosso l’inno, imposto ordine, disciplina e bacchettato la società in sede di mercato.

In tutto questo io spero che Conte veda l’Inter da conoscitore della sua storia e con quel rispetto che gli permetterebbe di integrare una cultura alla sua, invece di imporsi senza soluzione di continuità.
Vale anche per il modulo 3-5-2 che quest’anno ha messo in difficoltà Godin e Skriniar e quando è arrivato: Eriksen.

Ha rinunciato a Perisic e Nainggolan in nome di un’idea e puntato su un collettivo da cui ci si aspetterebbe di più, almeno quanto a personalità. Ha vinto con le piccole e perso quasi sempre con le rivali dirette. I numeri (ho detto i numeri) dicono che non ci sono grandi differenze con Spalletti: in questo momento è terzo in classifica, lontano dalla vetta, eliminato come il suo predecessore dalla Champions e con l’andata di Coppa Italia persa in casa col Napoli.

Da Antonio Conte è lecito aspettarsi di più e augurarsi che si cali in una realtà che non è fatta solo di grande lavoro e tattica. L’Inter la puoi domare se ne conosci l’essenza e la usi, come hanno fatto diversi suoi predecessori. In bocca al lupo ad Antonio
Amala.


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