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Lucio non muore. E non s'arrende

di Christian Liotta

Nell’Italia del calcio, volenti o nolenti, a prevalere è sempre la logica del risultato. E ci si può riempire finché si vuole la bocca con la grande bellezza di quell’Ajax che ha impressionato l’Europa intera, se poi, alla fine, arriva dal nulla un Lucas Moura che infila tre volte la porta dei lancieri e regala una finale di Champions League a un Tottenham il cui allenatore Mauricio Pochettino, tutti ricordano bene, alla fine della prima giornata di gare aveva il morale ben sotto le ghette dopo la clamorosa rimonta subita a San Siro per mano dell’Inter. Quello che va agli archivi, per i puri, semplici e materiali, è il risultato di 2-3 in favore degli Spurs che il prossimo primo giugno contenderanno la coppa dalle grandi orecchie in quel di Madrid al Liverpool, nell’anno del ritorno potente del ruggito del leone della Premier League. L’Italia del calcio territorio da ‘risultatisti’, dunque; un concetto che fa parte del retroterra sociale e culturale al punto tale da condizionare quella che è chiave di lettura di una partita.

Cosa sarebbe successo, per dire, se l’Inter fosse riuscita nell’impresa di non battere il Chievo ultimo in classifica, retrocesso da tempo, arrivato a San Siro con un manipolo di ragazzini anche interessanti schierati in campo, e non avesse risposto a dovere agli assalti delle altre pretendenti ai piazzamenti Champions? Sicuramente, vista anche la prestazione offerta dagli uomini di Luciano Spalletti, si sarebbe parlato di tragedia, psicodramma (cosa troverete di bello e raffinato in questo termine un giorno me lo verrete a spiegare), di un’Inter ormai in balia delle onde e destinata a naufragare. Invece, alla fine, è arrivato il successo tanto agognato, quello che mancava a San Siro dalla gara contro la Spal, e allora, oltre a chi ha sottolineato giustamente le difficoltà incontrate dai nerazzurri, ecco aggiungersi chi offre un’altra prospettiva del successo parlando di un’Inter capace di soffrire ma soprattutto di aspettare, di cogliere il momento giusto per colpire, dando dimostrazione di cinismo e pazienza e sopperendo alle assenze importanti, su tutte quella di Marcelo Brozovic. Tutto, probabilmente, perché alla fine il tabellino ha dato il responso che tutti auspicavano, tutti pretendevano.

Certamente non è andata in maniera drammatica e ingloriosa, ma altrettanto certamente non è questo il successo che di colpo scaccia via le paure, le tensioni, le difficoltà tornate ad acuirsi in queste ultime settimane nonostante alcuni risultati anche non da buttare via che però alla lunga si sono rivelati controproducenti per blindare una posizione che sembrava ormai formalmente ipotecata. Quello di lunedì sera contro il Chievo, a voler essere concisi, è un successo figlio dei tempi che corrono: arrivato al termine di una partita dove l’Inter mantiene costantemente il controllo del gioco, costruisce tanto ma, ancora una volta, concretizza poco; dove colleziona una caterva di calci d’angolo ma non riesce a batterne uno in maniera anche leggermente pericolosa; dove Samir Handanovic assiste da posizione privilegiata al match senza essere chiamato ad interventi di sorta ma sull’altro fronte il croato Adrian Šemper, gol a parte, non ha poi tantissime occasioni utili per mostrare il suo talento, a parte qualche presa alta nemmeno impegnativa e un paio di interventi importanti su Ivan Perisic prima e su Roberto Gagliardini in pieno recupero.

Tanto, forse troppo da sopportare per il pubblico di San Siro, questo spettacolo certo non figlio delle aspettative ma sicuramente delle ansie e dei timori che hanno accompagnato questa come tante altre vigilie di partite dell’Inter dando vita ad un pericoloso excursus storico che ha rischiato di riverberarsi anche lunedì sera. Dove per la verità sono andati in scena dei momenti anche surreali: i tanti presenti sugli spalti del Meazza molto spesso stanno in silenzio, spesso si lasciano andare in fischi e mugugni quando arriva un retropassaggio di troppo o la squadra insiste nella melina senza dare fluidità alla manovra. Tifosi che esprimono giustamente il loro pesante disappunto nei confronti della Curva Nord che intona i soliti, stucchevoli e brutti cori anti-napoletani, scanditi come se non ci fosse altro modo per scaldare la vigilia del match del San Paolo, o verso un Mauro Icardi ormai diventato la parodia di se stesso, impacciato e incapace anche solo di abbozzare una conclusione in porta degna di tal nome; ma steccano quando non danno nemmeno il tempo di entrare ad Antonio Candreva subissandolo di fischi ignominiosi, salvo poi constatare che l’impatto sulla gara del giocatore è più che positivo, e non solo perché infiocchetta la palla del definitivo 2-0. Non saranno stati due anni in cui Candreva ha eccelso, però non si capisce a cosa dovrebbe portare questo genere di atteggiamento.

Alla fine, vittoria doveva essere e vittoria è stata, con buona pace di ansiosi cronici, assuefatti dalla sindrome della Pazza Inter che però a tratti ha dato loro adito di non uscire da questa sorta di dipendenza, e di chi magari era pronto a pasteggiare su uno scivolone clamoroso e pesantissimo. Passa alla cassa in primis l’uomo ormai nel mirino di tutti, il ‘dead man walking’ per antonomasia di queste ultime settimane, quel Luciano Spalletti ormai dato come prossimo a fare le valige e lasciare Appiano Gentile senza nemmeno l’opportunità di ripassare dal via. Luciano Spalletti che però incassa e decide di dare anche i resti, in una serie di dichiarazioni da fuochi d’artificio che appaiono propedeutiche a quella tanto attesa conferenza dove, ha promesso, farà nomi e cognomi di coloro che male hanno agito nei confronti suoi e della squadra. 

Ma già nel dopopartita, Spalletti ha cominciato a sganciare le prime armi. Non sta lì troppo a scimmiottare José Mourinho e nemmeno dovrebbe essere questa la sua principale preoccupazione, ma lui più di altri, in questi anni di vacche magre, ha dimostrato perlomeno di essersi preso a cuore fino in fondo la causa dell’interismo. E lo ha fatto in maniera diretta, anche cruda, sottolineando come tante cose che possono succedere in qualunque spogliatoio o società del mondo, all’Inter vengono da troppi anni ormai trattate con una disparità di trattamento (ipse dixit) che dà al tutto toni quasi da tregenda, fossero anche solo piccole scenette. E per questo che Spalletti prova ad alzare, magari anche per l’ultima volta, la bandiera dell’interismo, forse per provare a giocarsi le ultime carte della sua esperienza milanese ed accattivarsi fino alla fine la platea, che però per una buona parte, forse in maniera non del tutto rispettosa, ha deciso di voltargli le spalle; o forse perché comunque l’esperienza all’Inter rappresenterà comunque l’apice della sua carriera di allenatore, dove comunque ha contribuito a scrivere una pagina non di poco conto di una storia recente dai troppi bocconi amari ingoiati, auspicando magari un colpo di coda della proprietà comunque, pare, improbabile.

Difende l’Inter, Spalletti, ma difende anche se stesso e la sua dignità: e lo fa dai paroloni offensivi usati troppo spesso dalla stampa; lo fa continuando anche a puntare il dito pesantemente contro il principale quotidiano sportivo nazionale, dando ormai la palese sensazione che la questione abbia raggiunto vette altissime sul piano personale. E lo fa rispondendo per le rime e per le controrime a chi osa definirlo un tecnico rassegnato, participio passato che gli fa saltare la mosca al naso in maniera veemente. Novello generale Pierre Cambronne, Spalletti (non) muore e non s’arrende, nonostante ormai l’ombra di Antonio Conte pare aver preso il sopravvento su di lui. E prima di dover alzare le mani davanti alla potenziale evidenza, si diverte a tenere tutti sulle spine prima di gridare il famigerato Merde! (pronunciato alla francese, ça va sans dire).

VIDEO - TRAMONTANA, SOFFERENZA E GIOIA: 2-0 AL CHIEVO


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