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Mancini e Mazzarri allo specchio: l'eterno ritorno dell'uguale

di Mattia Zangari

Guardarsi allo specchio per riconoscere se stessi, vedersi riflessi per poi odiarsi. L'Inter versione mazzarriana, pardon manciniana reazionaria, vista domenica sera allo Juventus Stadium è la riproposizione del personaggio mitologico di Narciso al contrario. Là succedeva che il figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso, innamorato della sua stessa immagine riflessa in uno specchio d'acqua, finisse per morire annegato per essersi sporto troppo per ammirarsi; qua, nel caso della Beneamata, ciò che viene restituito è un emblema deforme di un progetto che è giunto in quella dimensione circolare dell'eterno ritorno dell'uguale che ha costretto la creatura nerazzurra a riportare indietro le lancette dell'orologio della Storia al novembre 2014. 
Insomma, alzi la mani chi, prima del match contro i bianconeri, alla vista della formazione ufficiale nerazzurra, non ha proposto questo quesito: perché nessuno dei giocatori offensivi arrivati nelle ultime due sessioni di mercato è nell'undici titolare? Come mai gente che sa dare del 'tu' al pallone, quella che si pensava della nuovelle vague nerazzurra, viene relegata coercitivamente in panchina in nome di un credo di gioco che non è mai appartenuto al tecnico, che per giunta la esplica nel tempio meno violato del nostro calcio, contro quei sacerdoti che meglio sanno professare la religione del 3-5-2? Domande che, purtroppo, rimangono inevase, vista la modalità silenziatore che il Mancio ha deciso di impostare dopo la sconfitta senza appello contro la Juve. Peccato, peché sarebbe stato interessante capire i motivi di campo che hanno spinto il tecnico jesino a scegliere quello schieramento, invece che vedersi proposto lo sfogo, pur doveroso, di Ausilio davanti alle telecamere in diretta nazionale. Un effetto, però, il diesse nerazzurro l'ha prodotto: per la prima volta in stagione, infatti, il focus è stato spostato scientemente sui giocatori, soprattutto sulle new entry della rosa: “Mi aspettavo che i giocatori presi mi dessero qualcosa in più...”, ha ammesso candidamente Ausilio nel post di Juve-Inter. Concetto chiaro, non c'è che dire, che apre un'altra questione centrale: la colpa vera è dei giocatori stessi, di chi li gestisce, oppure della dirigenza che ha fallito nelle valutazioni rese, almeno fino a pochi mesi fa, aprioristicamente ineccepibili? Difficile dirlo, per saperne di più servirebbe assistere ad un vero e proprio simposio nerazzurro aperto al pubblico, in cui le tre anime del club - Thohir per la parte societaria, Mancini per quella tecnica e Ausilio per la dirigenziale - possano discutere di questo tema. Ovviamente ciò non si verificherà mai, ma è una cinica provocazione che sottolinea come sia giunto il momento di dividere la torta delle responsabilità in parti giuste, almeno per capire dove risieda il peccato originale dell'Inter degli ultimi anni. La sensazione concreta è che il vero errore del club di Thohir sia sempre stato il tempismo: il fatto di aver scelto Mancini è un chiaro tentativo di cambiare attraverso una rivoluzione un processo che aveva bisogno di avere il suo corso naturale nel tempo. Non puoi dare in mano una squadra modesta, senza ambizioni che non vadano oltre al terzo posto (pure utopistico nelle ultime stagioni, ad essere onesti), ad un uomo che dopo l'esperienza al City ha cucito addosso il vestito sartoriale di top manager che allena club dalla disponibilità economica infinita ed è abituato a declinare spesso e volentieri il verbo 'vincere'. E proprio in questo senso i limiti di quella decisione ormai vecchia di due anni hanno avuto la loro epifania nello scontro con la Juve allo Stadium, laddove è sembrato che l'Inter fosse l'inconsapevole passeggera di una specie di viaggio circolare che l'ha riportata indietro al tanto detestato punto di partenza. 


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