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Meglio. Non troppo meglio

di Christian Liotta
Premessa doverosa: come diceva Lorenzo il Magnifico, ‘chi vuol essere lieto sia, del doman non vi è certezza’. E allora, quella che solo pochi giorni fa sembrava una certezza ormai consolidata può diventare improvvisamente una bolla di sapone pronta a svanire alla stessa velocità con la quale si è formata. Ma alzi la mano, del resto, chi poteva anche solo immaginare solo pochi giorni fa, al di là dei più cinici, dei disfattisti e dei maliziosi, che sarebbe venuta a crearsi questa situazione tale da far saltare il banco in maniera così fragorosa. Del resto, era assodato, tutto si pensava in casa Inter tranne che arrivare a questo: perché ci si sentiva a posto col bilancio e con la coscienza con la partenza di Achraf Hakimi, si auspicava che gli ulteriori aggiustamenti dei conti sarebbero arrivati dalle partenze dei cosiddetti ‘esuberi’ o di qualche altro pezzo sì importante ma con condizioni contrattuali particolari; insomma, nessuno, in Viale della Liberazione, sognava minimamente di togliere lo scettro e il trono al suo re dichiarato.

E invece, l’Inter sembra davvero essere la vittima preferita della legge di Murphy: se le cose possono andare male, si può stare tranquilli che potranno andare anche peggio. E così, non solo per le cessioni non si è mai andati al di là di semplici riscatti quando non di risoluzioni contrattuali e per i possibili giocatori per i quali le offerte sarebbero state ascoltate eccome non sono arrivate proposte soddisfacenti. Ma addirittura, sulla testa di Beppe Marotta e Piero Ausilio è piovuta la mazzata più inaspettata, più tragica, più dolorosa: Romelu Lukaku, all’improvviso, ha deciso di consegnare la corona di sovrano di Milano e di abdicare, per provare a prendersi il titolo regale lì dove la monarchia è istituzione politica millenaria: Londra, Regno Unito. Dopo 95 presenze, 64 gol, uno Scudetto vinto da trascinatore e una finale di Europa League, il gigante di Anversa ha preso la decisione di ritentare l’avventura in Premier League, tornando in quel Chelsea sua prima casa dopo la fine dell’avventura all’Anderlecht.

La notizia ha inevitabilmente sconquassato tutto l’universo mondo del pallone nostrano arrivato sonnecchiante ad agosto, messo un po’ da parte dalla grande abbuffata dei Giochi Olimpici, quell’evento miracoloso che per un giorno trasforma tutti gli italiani esperti e appassionati di sport del quale probabilmente la maggior parte di essi ignoravano sino a qualche istante prima la pronuncia del nome stesso, e un mercato che ancora stentava a far parlare di sé. E ha aperto una ferita profonda tra i tifosi interisti, pressoché impossibile da sanare: perché ad andarsene non è solo uno degli attaccanti più importanti del panorama internazionale, quello che aveva ridato all’Inter un quarto di nobiltà in tema di trattative andando a fare i duri con il Manchester United, anche per via del pressing di Antonio Conte. Ma se ne va un simbolo, un eroe, se ne va il totem intorno al quale i sostenitori nerazzurri avevano riposto tutte le speranze di poter tornare a nutrire sogni di gloria. Un’illusione durata due stagioni, bellissime e intense, e finite con una lamata secca, chirurgica, come una sciabolata che ti prende in pieno petto e ti lascia per terra.

Immediatamente e inevitabilmente, è scattata la caccia al colpevole, a colui che ha permesso tutto questo. Nel mirino, ovviamente, in primo luogo è finita la proprietà, rea di non aver pensato agli interessi della squadra ma di aver pensato solo ed esclusivamente a salvare le proprie tasche rifacendosi sulla pelle del club a suon di partenze eccellenti, senza peraltro pensare di andare anche solo poco oltre l’asticella fissata per pensare di reinvestire, pandemia o no; poi, anche i dirigenti, colpevoli di non aver potuto/voluto fare nulla per fermare l’emorragia di pezzi grossi vedendosi sgretolare davanti il castello tanto faticosamente costruito. E nel marasma è finito anche il nome di Antonio Conte, che con i suoi sentori di bruciato e la sua conseguente partenza aveva dato un segnale che in tanti sono colpevoli di non aver colto, agli occhi dei tribunali ‘pop-up’.

Intendiamoci: come abbiamo spiegato anche ieri, alla fine, gratta gratta, se si è arrivati a questa situazione è perché tutto è partito, volenti o nolenti, dal giocatore. È stato Lukaku a esporsi appena tornato dalle vacanze, celando dietro le dichiarazioni rituali alla tv di casa la presenza di questa offerta da parte del Chelsea. Che dal canto suo nemmeno pensava troppo a Lukaku, impegnato com’era nella caccia ad Erling Haaland o ad Harry Kane. Ma visti i ‘picche’ ricevuti da Borussia Dortmund e Tottenham, allora gli uomini mercato dei campioni d’Europa hanno virato su quel giocatore già visto da giovane, forse un po’ troppo giovane. E per concretizzare almeno il piano C, gli uomini mercato dei Blues sono stati bravi anche a toccare i tasti giusti sul piano psicologico: la prospettiva di tornare da protagonista nel club campione d’Europa, di prendersi anche una rivincita verso quel torneo che non lo ha mai capito e dove mai si è espresso ai suoi livelli, il potenziale smarrimento dovuto alla partenza del suo mentore italiano, poter ambire alla conquista della Champions League. Il tutto condito da un ricchissimo ingaggio, un terzo in più rispetto a quello percepito all’Inter; il massimo, vista anche l’età del giocatore.

Facile a quel punto fare 2+2 e mettere il suo club di fronte al fatto compiuto; finché è stato possibile, l’Inter ha fatto muro, ma di fronte alla prospettiva di vedersi offrire una somma tanto pesante, allora resistere diventa praticamente un’utopia. Il tutto con buona pace di chi si lamenta della Super League, quando probabilmente la Super League è già in seno al calcio europeo stesso, dove vale il capitolo quinto e chi ha il grano, alla fine, ha vinto e primeggia. Comprese quelle realtà come l’Atalanta che hanno saputo sfruttare il periodo storico per far valere le proprie abilità di scouting e valorizzazione di talenti da rivendere poi a prezzi stratosferici senza che questo scalfisca minimamente la crescita esponenziale della squadra e delle sue prospettive. E pazienza se buona parte di questi giocatori, una volta usciti dalla comfort zone orobica, non ha saputo confermare le aspettative iniziali…

Crolla tutto, ancora una volta: crollano le speranze di poter tornare ad essere protagonisti e si scrosta il murale fuori San Siro che vede Lukaku esultante con lo sguardo al cielo; crollano le dichiarazioni d’amore e i giri in auto per le strade di Milano per festeggiare la vittoria del campionato. Soprattutto, crollano le certezze dei tifosi e aumentano le ansie di ritrovarsi a vivere un incubo simile a quello dell’estate 2011, quella dell’addio improvviso di Samuel Eto’o. Come oggi, anche in quel caso c’erano probabilmente anche vicende al di fuori dell’economia del club talmente pressanti da rendere inevitabile l’addio del campione tanto amato. E come quell’anno, i nomi indicati per la sostituzione del belga non stanno scaldando affatto la tifoseria, che, purtroppo a ragione, vede palesarsi il rischio di un nuovo ridimensionamento, per non dire declino, proprio quando si tornava a respirare aria di vertice dopo anni di buio.

Mancano sedici giorni all’inizio del campionato e come d’incanto l’Inter deve ricominciare daccapo, come deve ricominciare daccapo il suo allenatore Simone Inzaghi che vede aggiungersi un ulteriore stress test al semplice fatto di aver accettato di entrare nella centrifuga nerazzurra. In tutto questo, per fortuna, in un uggioso giorno di pioggia ad Appiano c’è stato un motivo per sorridere e per essere felici: dopo quasi due mesi dal dramma che ha sconvolto il mondo, Christian Eriksen è tornato ad abbracciare i suoi compagni. Momento bellissimo e a tratti toccante, tra abbracci coi compagni e col nuovo tecnico, sorrisi e un bell’applauso tributatogli dall’intero gruppo nerazzurro. Visibilmente commosso, il danese, che ambisce, un giorno, ad indossare in campo quella maglia numero 24 con la quale ha posato insieme a tutta la squadra.

In tanti, sui social, hanno espresso la loro felicità per aver rivisto il caro compagno; Andrea Ranocchia ha usato addirittura il termine ‘fenice’, una parola che vale come l’oro. Mentre Samir Handanovic ha voluto giocare con il suo italiano dicendosi felice di averlo visto ‘meglio meglio’. Lui sta decisamente meglio, lo hanno certificato anche i medici dell’Inter; una volta, nel parlare dei suoi progressi con la nostra lingua, ebbe da dire: “Meglio, non troppo meglio ma meglio”. Meglio sta lui, e ne siamo tutti felici; non troppo meglio sembra stare l’Inter, ancora sulle spine a pochi giorni dal via del campionato. Sarà chiamata a risorgere dalle ceneri di un’annata epocale, breve ma intensa. Ma ci sarà ancora la possibilità e soprattutto la voglia di recitare di nuovo la parte della Fenice?
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