Non c'è altro modo. E non c'è mai stato
Immaginate un normale orologio, con le lancette che segnano ore e minuti in modo rigorosamente analogico. Ora al posto dei numeri, inserite le date più importanti del calendario della stagione calcistica, con la lancetta che punta inesorabilmente al 22 Agosto, data del primo kick-off della Serie A 2015/16.
Ogni squadra del campionato italiano consulta il proprio quadrante e con l’incessante scorrere del tempo tasta il proprio umore in base a quanto fatto in estate, durante la preparazione. E’ arrivato il momento di rapportarsi con sé stessi e capire se le ambizioni di preseason possano trovare conferma nel corso del lungo tragitto che culminerà il 15 maggio, con l’ultima giornata di campionato. Tutti i club sanno a cosa devono puntare: le grandi vogliono lo Scudetto o, perlomeno, gli introiti della Champions League. C’è poi un gruppo che cavalca il limbo delle Coppe Europee, chi è pronto a stupire (il Torino, ad esempio), chi lotta per una salvezza tranquilla e - infine - le squadre che tenteranno fino all’ultimo di rimanere aggrappate con le unghie e con i denti al treno della Serie A.
In tutto questo, l’Inter. Vittima di un precampionato deludente, la squadra di Roberto Mancini è stata presa di mira da addetti ai lavori e tifosi per la scarsezza del gioco proposto, la poca propensione alla corsa dei giocatori e - dulcis in fundo - per una rosa ancora in via di definizione che il 20 agosto avrebbe bisogno di un’identità più precisa, profonda. Invece il Mancio è dipinto come una sorta di traslitterazione tecnico-tattica della figura letteraria di Holden Caulfield, in preda all’indecisione cronica e ad una serie di turbolenze tattiche che stanno snaturando la squadra, in balia del continuo cambiamento di modulo. All’Inter, strano a dirsi, ma sembra regnare la confusione, visto che ancora non si capisce chi dovrà far le valigie (nel reparto difensivo soprattutto) e chi invece prenderà la strada di Appiano Gentile, se Ivan Perisic, Diego Perotti, Dries Mertens, Manolo Gabbiadini o un’altra sfilza di nomi, più o meno improbabili, che permeano le chiacchiere dei tifosi nerazzurri da ormai un mese abbondante.
Dove stanno andando, quindi, le anatre? Le speranze di trovarle ancora a Central Park sono esigue, perché l’Inter ha iniziato tempo fa un processo di rivoluzione che non permette più di voltarsi indietro a rimuginare sul passato. L’accordo con la UEFA, l’arrivo di Geoffrey Kondogbia, la cessione di Xherdan Shaqiri prima e di Mateo Kovacic poi. La truppa nerazzurra, guidata da Erick Thohir, ha ormai abbandonato il porto sicuro e naviga in mare aperto, a caccia di nuovi e vittoriosi orizzonti. Nessuno ha garantito successo in breve tempo, seppur Mancini ci abbia provato a porre un drastico cambiamento nelle menti dei giocatori, optando per uno stile di gioco più offensivo e sbarazzino, come si confà alla storia personale del tecnico di Jesi. E proprio questo è lo snodo fondamentale dell’intera faccenda nerazzurra: senza Roberto Mancini, il suo appeal internazionale e le sue idee di calcio dinamico e veloce, probabilmente l’Inter si ritroverebbe ad un altro, l’ennesimo, punto morto della sua ricostruzione.
Se adesso c’è difficoltà a sognare e a fidarsi della dirigenza interista è solo perché gli errori commessi in passato sono stati tanti, tantissimi. Se adesso l’Inter appare sfilacciata e senza senso, non vuol dire che così sarà per tutto l’anno. A volte bisogna semplicemente credere: alle magie di Stevan Jovetic, all’istinto da predatore di Mauro Icardi, ad una nuova solidità difensiva, qual è quella che si va cercando con Miranda e Murillo. E anche alle esigenze di bilancio che costringono la cessione di Kovacic, a 35 milioni di euro. Oro, a parer mio, per un ventunenne che sicuramente si farà, ma che ora come ora stentava a decollare, racchiuso nella sua monodimensionalità, ovvero quella del passaggio illuminante. Troppo poco, in una squadra che è andata in cerca di se stessa per tre stagioni e che ora sta tentando di scrollarsi di dosso le paure di annate storte e di deludere, ancora una volta, i tifosi a San Siro.
In quest’ottica, la figura di Roberto Mancini va totalmente rivalutata. Se alcuni lo additano come scellerato, o “turbato psichicamente”, come mi è capitato di leggere, io sono più propenso a vederlo come una sorta di Mr. Antonini, sempre per affidarsi ai personaggi vergati dalla penna di J.D. Salinger, che tenta di scuotere dal proprio torpore il ragazzo in difficoltà e lo sprona a confrontarsi con l’esterno, senza più l’ansia o la paura di rimanere deluso dal confronto con la realtà. Lo fa in modo diverso dal normale, senza per forza ricondursi ai sermoni o alla rigidità di alcuni schemi mentali, ma dando il giusto peso alle caratteristiche del singolo, amalgamando i talenti della squadra per un unico obiettivo: vincere. Che senso ha paventare l’adesione ad una filosofia calcistica o ad un’altra, all’idea della Juventus, o al tiqui taka del Barcellona, o ai ritmi frenetici delle forze teutoniche?
L’Inter è una creatura unica, per storia e tradizione, nel panorama calcistico mondiale, così come molte altre società. La storia del calcio è fatta di cicli e, dopo aver tanto sofferto, è giunto il momento di incominciare la risalita. Come diceva Georg Wilhelm Friedrich Hegel, idealista tedesco, il quadro completo della storia lo avremo solo alla fine di essa. Quindi perché sbizzarrirsi in allampanati commenti, o sentenze su questo o quell’altro giocatore, o vane speranze, quando non basta far altro che osservare il campo per qualche partita e poi dar adito ai propri pensieri? Che Martin Montoya alla fine, dopo un periodo d’adattamento, non si riveli un ottimo terzino? O che Fredy Guarin riesca finalmente a maturare a livello di presenza in campo? O, ancora, che Mauro Icardi implementi molti altri movimenti nel suo pacchetto offensivo e faccia ricredere chi, non più tardi di qualche mese fa, lo dava come cessione certa, per di più senza rimpianti?
Mentre le lancette del nostro orologio sono ormai prossime all’alzarsi del sipario di questa stagione, non credo ci sia bisogno di farsi consumare dalle angosce o dalle insicurezze per una cavalcata che è ancora tutta da farsi e che non si sa dove potrà portare l’Inter. Alla fine sono i giocatori dell’Inter a doversi guardare dentro e trovare lo spirito giusto per assecondare i dettami tattici del Mancio e portare sul terreno di gioco l’intensità richiesta. Devono sentire qualcosa che ruggisce loro dentro, per dimettersi dalla condizione di “grande club in decadenza” e issarsi su, con forza, ai primi piani della Serie A. Non c’è altro modo. E non c’è mai stato.