Non chiamatelo calcio
Non chiamatelo calcio. Quantomeno, non chiamatelo sport. Perché di sportivo, qui, c'è davvero poco. E se invece ci sembra di sì, forse, è perché ci siamo abituati da troppo tempo a nuotare in questa melma. Sarò troppo netto, troppo estremo, ma è come vedo io il football italiano da anni. Al di là del tifo, al di là delle ragioni di classifica, al di là dell'altitudine geografica, al di là della categoria. Il calcio, in Italia, non è più uno sport da ormai non si sa più nemmeno quando. E non c'entra neppure la questione economica, più volte tirata in ballo. E' solo un mero fatto di cultura, prima generale e poi, di conseguenza, sportiva. L'ignoranza genera ignoranza, a ogni livello. Inevitabile cascata.
Che in Italia una partita di calcio sia diventata una corrida, non lo scopro di certo io nel 2016. "La Serie A è segnata dalle proteste dei calciatori nei confronti degli arbitri; quasi sempre immotivate e in ogni caso non accettabili per la veemenza e per la tendenza a circondare il direttore di gara. Un atto di forza o un tentativo chiaro di pretendere un risarcimento a breve". Lo ha scritto sul Corriere della Sera, appena ieri, l'ex arbitro Paolo Casarin. Come dargli torto? Come contraddirlo? Ormai si è arrivati al punto di chiedere perfino rimesse laterali a metà campo chiaramente di senso opposto. Siamo al ridicolo, diciamocelo chiaro e tondo.
In tutto questo squallore, entrano di prepotenza altri fattori che finiscono di imbrattare un dipinto già deforme e squagliato. Innanzitutto, la figura dell'arbitro. Il direttore di gara, nella maggior parte dei tornei europei così come nelle coppe, si erge a giudice: si stacca dalla contesa, demarca una linea, prende decisioni – anche sbagliate, fisiologicamente – sempre rispettando il ruolo, l'etica e l'estetica. Ragiona con i giocatori, li punisce e non accetta provocazioni o risse. In Italia, si fa fatica a capire chi sia l'arbitro e chi il calciatore, in quei capannelli imbarazzanti dai quali spuntano poi cartellini a casaccio. Tant'è vero che, alla fine del teatrino, non si capisce mai quali fossero i destinatari della sanzione disciplinare. In poche parole, l'arbitro si abbassa allo stesso livello di coloro che dovrebbe giudicare, finendo poi per accettare (da alcuni, non da tutti, sia chiaro) anche proteste veementi e fuori da ogni contegno.
L'altro fattore da prendere in considerazione è quello che riguarda chi è chiamato a commentare e analizzare da fuori, ovvero gli operatori dell'informazione. Partigiani, incompetenti, distratti, superficiali, banali, prezzolati: un mare indistinto di chiacchiere che poco hanno a che fare con la sostanza e la forma del contendere. In questo modo, si dà in pasto a chi legge e a chi ascolta una versione fittizia della realtà. Creando, quindi, un'opinione pubblica errata, fallace, che poi può determinare talvolta finanche il risultato del campo. Basti pensare al modo in cui si vive sugli spalti una partita, tra insulti, fischi e disappunto più che con cori positivi, canti, applausi e incitamenti. Il problema non è il tifo. Il problema è la faziosità, che esiste anche senza tifo. E' bene comprendere la differenza. Il tifo è sano, perché rintraccia i suoi limiti nello stato d'animo (felice in caso di risultato positivo; scontento in caso contrario), ma non inficia l'obiettività. Cosa che, invece, fa la faziosità. Non possiamo essere vegetali, ma possiamo essere corruttibili.
Tutti hanno negli occhi il "testa su testa" di Bonucci con Rizzoli (spiace per i pignoli: appoggiata o sfiorata cambia davvero poco), gli insulti a voce alta e reiterati di Zaza a Calvarese, la sfuriata di Higuain con Irrati (che presumibilmente sarà correttamente punita). Io ho negli occhi Miranda che atterra Belotti, incassa il secondo giallo senza fare un fiato e, prima di lasciare mestamente il campo, va a chiedere scusa all'avversario sincerandosi delle sue condizioni. Lo stesso Belotti che poi, qualche minuto più tardi, si traveste da Tania Cagnotto, fa espellere Nagatomo e va a trasformare lui stesso il rigore del definitivo 2-1, ben consapevole di quale fosse stata realmente la dinamica dell'azione che aveva condotto al penalty.
Un evento di e per furbi. Un evento, appunto. Ma non chiamatelo calcio. Non chiamatelo sport.