Retrocessi senza un piano B
"Padelli, Vrsaljko, Lautaro, Keita, Ranocchia, Nainggolan e Miranda". Bisogna partire dalla fine, dalla lettura della panchina dell'Inter nella gara più importante degli ultimi sei anni, per analizzare i motivi di una retrocessione annunciata in Europa League. La quarta fascia Uefa, la mannaia del Fair Play Finanziario che si è abbattuta sul gruppo limitandolo numericamente e un calendario sfavorevole sono solo le premesse inevitabili che hanno portato al funesto epilogo di martedì sera.
Tra la cattiva sorte di un sorteggio che ha incluso Icardi e compagni nel ribattezzato 'gruppo della morte' - con Barcellona, Tottenham e Psv - e una visione poco lungimirante sul mercato nel quale Piero Ausilio non ha capito la vera necessità di rinfoltire la mediana in una rosa squilibrata, si innesta la preparazione di Luciano Spalletti alle due sfide continentali da dentro o fuori. Perché la Champions League è la competizione dei dettagli, dove è importante non commettere errori nei momenti chiave che avvicinano alla qualificazione. I sette punti raccolti nelle prime quattro partite dai nerazzurri, dopo aver limitato al massimo i danni nel doppio confronto a cavallo del raggruppamento con il Barcellona, hanno valore nella misura in cui arriva puntuale la dimostrazione di saper amministrare quel vantaggio accumulato, senza che quell'arma a doppio taglio ferisca a morte causando l'eliminazione. E qui decade il 'cavallo di battaglia' di Lucio che in ogni conferenza parla di venti giocatori titolari. "Quando si hanno 20 giocatori forti, a volte si rischia che diventino tutti riserve. Invece, nella mia squadra, la competitività sta facendo sì che siano tutti titolari, e questo è un atteggiamento giusto che ci dà sostanza", aveva affermato il tecnico di Certaldo a Wembley, nel giorno di vigilia del primo match point cestinato contro gli Spurs. Una gara nella quale, a proposito di sprechi, l'Inter ha avuto l'amara riprova di aver dilapidato un patrimonio della campagna rafforzamento estiva con una gestione poco oculata del suo rientro in campo dopo gli infortuni e le ricadute: si tratta, ovviamente di Radja Nainggolan, attore protagonista solo in due gare su sei (guarda caso vinte) e figurante a mezzo servizio o assente di lusso nelle restanti. In tribuna al Camp Nou, seduto a bordocampo l'altro ieri assieme a una folta delegazione che interista lo è diventata tra luglio e agosto. Sul prato verde di San Siro, sotto un cielo ammantato di stelle che solo la Champions sa far luccicare, un undici raffazzonato con solo tre nuovi interpreti (Asamoah, De Vrij e Politano) assieme a un rimpasto mal riuscito di alcuni reduci della scorsa stagione, chiusa in apnea tra quarto e quinto posto fino a nove minuti dalla fine, fino al gol liberatorio di Matias Vecino. L'eroe eletto di queste notti, in platea come un comune mortale perché fermato dal solito problemino muscolare che rovina la preparazione standard di un appuntamento con la storia.
Ecco, se si può muovere un appunto a Spalletti, va detto che ha avuto il demerito tra i tanti meriti di non studiare un piano B: un po' per le imposizioni di Nyon – che lo hanno privato di tre alternative come Dalbert, Joao Mario e Gagliardini con le quali avrebbe potuto dare più respiro al turnover – un po' per cocciutaggine sua personale, non è ancora riuscito a far sentire le seconde linee importanti come le prime firme. Al netto di qualche forfait per infortunio sul quale è impossibile mettere mano, Spalletti ha sempre preferito aggrapparsi sulle solide certezze accumulate l'anno scorso, piuttosto che provare soluzioni diverse con le new entry. In soldoni: rispetto alla stagione passata, Spalletti, a livello tattico, ha provato a inserire nel motore solamente il Ninja, salvo poi rimanere a piedi assieme a quel 4-2-3-1 ideale che, per le ragioni di cui sopra, si è visto di rado con il belga in campo. Lautaro-Icardi è stato un semplice esperimento agostano, ben riuscito solo in amichevole e stroncato a Reggio Emilia. Salvo poi portare in dote, in tutta la sua estemporaneità, un punto d'oro in casa contro il Barcellona: super giocata del Toro, appena entrato dalla panchina, con assist annesso a Maurito, implacabile nel segnare l'1-1. L'ostinazione sull'impiego di Ivan Perisic non ha prodotto effetti tangibili in termini di risultati, al massimo ha garantito un equilibrio apparente che poi ha sempre finito per spezzarsi: Eriksen (due volte), Rosario, Rafinha, Malcom, e Lozano hanno condannato l'Inter alla rincorsa per sei volte di fila. Non un dato trascurabile, ma tanti indizi che fanno una prova gigantesca: in Champions, se non attacchi, vieni attaccato e, sovente, punito. Pur avendo tre tra i centrali migliori del mondo, la tattica di speculare su uno 0-0, che poi hai la presunzione di sbloccare in qualsiasi momento, non porta i suoi dividendi in Europa: ecco perché, così contestualizzata, l'uscita dal torneo può essere ricondotta a un termine come 'demerito'.
La beffa, anche per come si è materializzata, va riportata nei giusti binari riavvolgendo il nastro della storia dei 540 minuti giocati dall'Inter nell'Europa che conta dopo 2380 giorni di esilio: pronti-via e arriva la vittoria al fotofinish griffata Icardi-Vecino contro un Tottenham in fase discendente (due ko di fila in Premier) e incerottato (out Lloris, Sissoko e Alli per infortunio, più Alderweireld e Trippier misteriosamente non convocati). Segue l'affermazione in terra olandese sempre in rimonta contro il Psv, quindi arriva il punto insperato in due partite al cospetto di un Barcellona ateo (senza Lionel Messi). Morale: vantaggio accumulato di tre lunghezze sulla concorrente numero uno per il secondo posto e possibilità di giocarsi il passaggio agli ottavi con due risultati su tre. Rifiutato il primo bonus, più per atteggiamento generale di squadra che per superiorità manifesta dell'avversario, arriva l'occasione imperdibile di rimanere in corsa anche 'solo' facendo il proprio dovere: per essere a posto con la coscienza, l'Inter deve tassativamente battere la meno quotata delle quattro. Ed è qui che va in scena un film ai limiti dell'assurdo: il primo gol nerazzurro lo mette a segno a chilometri di distanza da Milano Dembélé. Impatta il Tottenham, ma non al Camp Nou: è Lozano del Psv a gelare San Siro. E aumenta la sensazione che i deficit di personalità siano pari di qua e di là della Manica. Icardi, commovente nella sua ultima apparizione in Champions, regala il pari e accende un fuoco che arde giusto il tempo dell'esultanza. L'Inter è nelle migliori 16 d'Europa, e per qualche minuto i tifosi sono costretti a tapparsi orecchie e occhi per paura di ricevere notizie dolorose dalla Catalogna. La sensazione che si respira al Meazza è che sia più conveniente sperare in San Cillessen che in un lampo di un proprio beniamino. Crolla il muro olandese, non è quello del Psv: il portiere del Barça si arrende a Lucas Moura. Titoli di coda, sipario sulla Champions nerazzurra. Anzi, no: la prende Lautaro, che la manda alta. L'istantanea nitida di un piano B mai preparato come si deve: da Vecino al Toro sono i soliti particolari a fare la differenza. Dalla Europa che conta all'Europa minore è un attimo.