Ripetizioni di interismo
Macché, niente da fare. Nonostante tutto. Nonostante un Meazza vestito a festa, nonostante un pubblico accorso numeroso alla chiamata. Nonostante i buoni propositi e i pensierini della sera.
Il viaggio si ferma a Milano, anche l’Europa meno importante e meno nobile ci lascia a casa; dentro o fuori, non esistono prove d’appello. Aggiungerei, senza voler offendere nessuno, meritatamente.
È innegabile; tra andata e ritorno abbiamo, a memoria, creato più situazioni potenzialmente pericolose dei nostri avversari. Vanificate per errori di mira, orrori dei singoli, centimetri maledetti. Ma non cerchiamo scusanti che non stanno né in cielo né in terra: i tedeschi, nei 180 minuti, hanno dato l’impressione di essere molto più squadra. Ciascuno sapeva esattamente cosa fare e come farlo. Non erano e non sono imbattibili, semplicemente sono stati concreti. Ciò che si chiede ad una squadra di calcio. Compatti e concreti.
Urgono provvedimenti, questa è una stagione dove veniamo sistematicamente bocciati ad ogni appello. Peggio che l’incubo di Diritto Privato per uno studente di Giurisprudenza o Anatomia per uno di Medicina. Al di là degli errori e degli orrori triti e ritriti; stare a parlare sempre delle stesse cose è evidente che non porti a nulla. Tanto, all’appello successivo, magari prendiamo un assistente diverso ma ci incartiamo sempre sullo stesso refrain.
Urgono provvedimenti perché quello che spaventa maggiormente il sottoscritto, ad esempio, è la totale mancanza di ardore agonistico. Di cuore, sudore e polmoni. Di grinta e cattiveria sportiva. È necessario, indispensabile trovo, che qualcuno si metta d’impegno e cerchi di spiegare a coloro che scendono in campo con la maglietta nerazzurra il significato di vestirla. Chi decide di venire all’Inter deve sapere dove va, quali valori hanno i colori del cielo e della notte. Perché non basta venire a Milano sapendo che ogni metà del mese il bonifico è garantito.
Fare il compitino assegnato non è sufficiente. Come non lo è applicarsi in allenamento e vivere con professionalità l’avventura nella Beneamata. No, mi ripeto, non lo è.
Questa è una società dove storicamente il senso di appartenenza, i colori come una seconda pelle, devono diventare modo di essere e di vivere. Non lo dico io, lo dice la Nostra storia; lo dicono i tanti campioni che hanno vestito questa maglia. Qui non siamo in un porto di passaggio: l’Inter è un punto di arrivo. La sublimazione di una carriera calcistica. E non si dimostra con i tweet o con le dichiarazioni sensazionalistiche.
Cuore, sudore e polmoni. Con il cuore messo apposta come apertura del pensiero.
Inutile rivangare ciò che è stato; l’Inter di Angelo Moratti, quella di Pellegrini e del Trap, la prima di Mancini o quella fantasmagorica e irripetibile del triplete, di Massimo Moratti e di José Màrio dos Santos Mourinho Fèlix, per tutti Mou. Ma ricordarle è d’obbligo. Ricordare a chi arriva chi c’era prima di lui. Roba da far tremare i polsi l’elenco di chi ha portato il nerazzurro negli anni.
Certo, si può obiettare che il calcio di oggi è differente da quello di ieri. Che il business la fa da padrone e i valori vengono in un secondo momento. Sarà, ma non è che ci creda poi tanto.
Ecco, oggi vedo un gran viavai di chiacchiere, di procuratori, di contratti da allungare o da perfezionare. Si parla. E si parla. E si parla. Ma, ad un certo punto, anche basta. Basta con le chiacchiere, controproducenti ed inutili. Basta con il pellegrinaggio di Tizio o Caio alla ricerca del milione in più per il proprio assistito… perché sai, lo vuole la squadra ics o quella ipsilon… e se poi va in scadenza… e se offrono di più da un’altra parte… e se, e se… Tutti maestri nell’arte oratoria, tutti campioni del Mondo.
Lo vuole la squadra ics? Perfetto, porta il malloppo e lascialo sul tavolo. Decidiamo poi noi cosa fare. Se tenerlo oppure venderlo.
Questo vorrei sentire dalla Società. Siamo l’Inter, pur nel dissesto economico in cui ci si dibatte. Siamo tra le dieci Società più conosciute ed importanti nell’Universo a noi noto.
Punto di arrivo, non snodo ferroviario.
Il pistolotto mi è venuto spontaneo mentre seguivo Inter-Wolfsburg. Tutti troppo precisini, nelle loro magliette celesti (ma perché celesti? Siamo l’Inter. Nerazzurri), tutti troppo buonini, primo e unico ammonito Medel al minuto novanta per fallo di frustrazione. Mi scuso ma riprendo un concetto espresso venerdì scorso: tutti come quei bravi scolaretti perfettini che nell’intervallo non giocano a pallone… sennò mi rovino i pantaloni… e rovinateli, questi benedetti pantaloni.
È mancata la grinta, il mordente, la voglia di arare il terreno di gioco. Ora non so se sia mancata per la pessima preparazione atletica, ormai è assodato che si corre non più di sessanta minuti a partita, o per una vera mancanza di personalità. Opinione del sottoscritto, la seconda.
Non c’è un leader in campo. Nessuno che trascini i compagni, che li prenda per il colletto e suoni la sveglia. O la carica. No. Siamo carini, precisini, perfettini. E non va bene dirne quattro al centrocampista che batte la fiacca nascosto sulla fascia. Sennò poi si offende.
Che diamine, questa è una squadra che storicamente è vissuta sull’impeto, sulla frenesia, sull’ardore: siamo sciabolatori nel DNA, non fiorettisti. Si, è bello vedere un colpo di tacco; ma a noi piace di più Zanetti che prende la palla e parte come una locomotiva sulla fascia. Lui sì arando il terreno di gioco.
Si ripartirà da Mancini. Perché così era nei programmi e così sarà, con buona pace dei suoi (ho scoperto numerosi) detrattori. Il nostro allenatore ha compiti gravosi; rosa da sfoltire, profili da inserire, gioco da sviluppare, traguardi da raggiungere. Non sono cose da poco.
Ma, a mio personalissimo parere, ha un dovere: dare alla squadra che è, e soprattutto che sarà, ripetizioni. Di sano interismo. Affianchiamogli chi volete, ma è la prima cosa da insegnare.
Ad oggi non lo hanno studiato.
E buona domenica a Voi.
Amatela.