"Siamo l'Inter". Inizia a entrare nella testa dei giocatori il messaggio di Mancini
Quando un club si chiama F.C. Internazionale Milano 1908, con la sua storia che pesa per trofei vinti e numero di tifosi al seguito e che solo quattro anni fa saliva per la terza volta sul tetto del mondo dopo aver conquistato un Triplete sconosciuto per le altre italiane, non si può pensare di ragionare improvvisamente come una provinciale. Nemmeno nei momenti di difficoltà o per un naturale ridimensionamento che si presenta quando giungono al termine cicli meravigliosi. Il blasone, il dna, rimane intatto, sempre. Lo status da “Grande” deve poi rappresentare il valore aggiunto per rimanere a galla, quando la squadra è invece oggettivamente più debole per l'impoverimento tecnico della rosa a causa di motivi molteplici, in primis la congiuntura economica sfavorevole, senza però dimenticare i gravi errori di valutazione da parte della società dopo la splendida notte di Madrid.
Tornando al discorso iniziale, per mantenere il profumo delle grandi occasioni, riveste un ruolo fondamentale l'allenatore. Soprattutto nel cosiddetto calcio moderno, dove il tecnico deve essere anche un manager. Dopo il mitico Josè Mourinho e prima del ritorno di Roberto Mancini, all'Inter sono arrivati Benitez, Leonardo, Gasperini, Ranieri, Stramaccioni e Mazzarri. Benitez e Leonardo erano consci di essere stati scelti da un club di alto livello e i loro errori, soprattutto nel caso di Rafa, sono dipesi da altre ragioni. E comunque lo spagnolo, il cui difetto principale era quello di essere un nemico di Mourinho , ha vinto Supercoppa italiana e Mondiale per Club, mentre il subentrato Leonardo ha contribuito a una rimonta in campionato che portò la squadra al secondo posto e conquistò la Coppa Italia, ultimo titolo entrato nella già affollata bacheca interista.
La “provincializzazione” nerazzurra è iniziata con l'avvento degli altri tecnici menzionati prima del ritorno del Mancio, anche se escluderei Stramaccioni la cui unica colpa, a mio avviso, è stata di essere troppo presto chiamato in una piazza così importante. Ma Gasperini, Ranieri e Mazzarri, buonissimi allenatori per realtà senza particolari ambizioni, nulla c'entravano con l'Inter e l'interismo. Questione di appeal, physique du role, capacità mediatiche e strategie da imporre alla società. Mazzarri, ad esempio, tanto per non tornare troppo indietro con il tempo, continuava a rivendicare la sua gavetta, il suo modo di lavorare con Acireale, Pistoiese, Livorno, Reggina, Sampdoria e Napoli. Sicuramente una carriera in crescendo, ma l'Inter è un'altra cosa.
“Allenare l'Inter è come stare in una lavatrice che centrifuga”, diceva il grande Giovanni Trapattoni, che qualcosa in nerazzurro ha vinto. Farsi travolgere dallo stress, dalle richieste dei tifosi che ogni stagione vorrebbero scudetti e coppe, da presidenti che analizzano qualsiasi dettaglio, equivale ad un fallimento annunciato, anche se nel corso allenatori di Coverciano si risultava tra i migliori. E l'ambiente, tutto, era caduto in depressione. Ecco perchè Roberto Mancini è tornato nel posto giusto al momento giusto, al di là dei punti (ancora pochi) ottenuti sotto la sua gestione.
Invece di parlare di anno zero e di processi di crescita, Mancini ha subito chiarito con società, stampa e quindi tifosi, cosa servisse sul mercato per mettere in pratica un tipo di calcio che riportasse la gente allo stadio per godersi un'Inter competitiva. E prima di giocare una partita oggettivamente proibitiva per una squadra che si apprestava a fare visita alla capolista Juventus, Mancini, con il suo solito sorriso sornione, ha detto: “Noi siamo l'Inter. Andremo a Torino per vincere, anche se si potrà perdere. L'importante sarà giocare con la mentalità della grande squadra”. Detto fatto: allo Stadium l'Inter ha si rischiato di farsi travolgere nel primo tempo, ma a fine gara recriminava per un pareggio che stava stretto. E nel secondo tempo si è sentita l'importanza di uno come Podolski, fortemente voluto dal tecnico, i tifosi hanno sentito nuovamente forte la voglia di Inter, anche perché due giorni dopo si è vestito di nerazzurro un certo Xherdan Shaqiri.
Domenica era bello il Meazza baciato dal sole in occasione del mezzogiorno di fuoco con il Genoa guidato dal permaloso Gasp, che vuole dimenticare l'Inter, ma ne parla sempre. Nonostante le assenze in difesa e quella di Mateo Kovacic, era bella l'Inter schierata con il 4-2-3-1, il modulo adottato dalle grandi d'Europa. Era bella, nel primo tempo, la squadra che faceva girare il pallone velocemente, perché finalmente tutti giocano anche senza palla infilandosi negli spazi. Era bello finire il primo tempo sul 2-0 a favore contro un Genoa avanti meritatamente in classifica e che pensava di venire a banchettare a San Siro. E' vero che nella ripresa molte cose sono cambiate in negativo perché la benzina era finita e i difetti ancora esistono, tanto che i tifosi nerazzurri hanno temuto la beffa finale dopo il gol realizzato dal Genoa. Ma nella testa dei ragazzi deve essere rimbombato quel: “Noi siamo l'Inter”, mantra di Roberto Mancini e puntuale è arrivata la rete sicurezza di Nemanja Vidic (bentornato campione).
Ora l'Inter è a -6 dal terzo posto con un mercato che ancora fa sognare, nonostante vada risolta nel modo migliore la grana Osvaldo e l'Uefa desideri qualche cessione in ossequio al Financial Fair Play. Intanto sabato alla 18 si recita ad Empoli, dove giocano bene al calcio. “Ma noi siamo l'Inter”. Firmato: Roberto Mancini.