Cruz: "Inter, tornerei di corsa. Calciopoli? La verità è uscita! Mou..."
A tu per tu con Julio Ricardo Cruz: il Guerin Sportivo di questo mese propone una lunga e interessante intervista al ‘Jardinero’, uno dei grandi protagonisti dell’Inter del primo decennio degli anni Duemila. Un guerriero in campo, che per il momento ha abbandonato il calcio per dedicarsi all’attività politica: “Ma non è mica detto che questa sia la mia ultima avventura. Domani, chissà, farò l’allenatore o il dirigente. Per un breve periodo, appena chiuso col calcio, ho lavorato come scout di talenti”. E in quale squadra vorrebbe lavorare Cruz? “Ho ancora un appartamento a Milano e Massimo Moratti qualche tempo fa mi fece un’offerta per tornare all’Inter. Ci tornerei di corsa, quella è casa mia”.
Si parla anche di Alvaro Recoba, suo ex compagno di squadra, ancora decisivo col Nacional Montevideo: “Il Chino è un mito, grande amico. Avrebbe potuto fare di più nell’Inter, ma gli è mancato qualcuno che lo stimolasse nel modo giusto. Sono contento che sia ancora in campo. Il ruolo gli ha permesso di correre meno di me e questo incide”. Cruz arrivò in Italia dall’Olanda, dove fu grande protagonista con il Feyenoord che ne fece un idolo: “La gente mi amava molto. La mia casa dal punto di vista sportivo è l’Inter, ma anche a Bologna (suo primo club italiano, ndr) le persone mi ricordano ancora con tantissimo affetto. Quando ho compiuto 40 anni, però, sono stati i tifosi della Lazio quelli che più di tutti mi hanno fatto gli auguri su Instagram”.
Tantissimi, inevitabilmente, i ricordi della sua lunga militanza in nerazzurro. Questi i passaggi più interessanti:
Quali partite porti nel cuore?
“Gli attaccanti vengono giudicati per i gol e ogni gol è come innamorarsi. E’ successo quando con l’Inter ho fatto gol al Milan appena entrato in campo. Era l’11 marzo 2007 e vincemmo 2-1: Roberto Mancini mi fece entrare al posto di Hernan Crespo e dopo meno di un minuto (11 secondi) mi trovai davanti alla porta per calciare dentro e pareggiare. Il grosso dell’azione lo fece Zlatan Ibrahimovic, con un tiro che Dida non riuscì a bloccare, ma io ero lì e ho fatto gol”.
Quelli furono i tempi d’oro dell’Inter, ma tu sei stato importante anche nei momenti più difficili:
“Una delle partite che più ricordo dei tempi nerazzurri fu l’esordio in Champions League contro l’Arsenal. L’Inter stava faticando molto, tutti criticavano Hector Cuper, ma quella sera giocammo davvero molto bene. Si capiva già dall’atmosfera che c’era nello spogliatoio nel prepartita. Abbiamo vinto 3-0 e io ho fatto un bel gol in pallonetto dopo 22 minuti di gioco”.
Hai tenuto il conto di quanti gol hai fatto alla Juventus nella tua carriera?
“No, ma ci provo ora. Dunque, due con il Feyenoord, con l’Inter almeno 7, con il Bologna altri 3. In totale dovrebbero essere 12”.
Tu hai giocato nell’Inter a cavallo di Calciopoli. Prima, quando non vinceva, e dopo quando è tornata a trionfare in campionato. L’ostacolo era solo Moggi?
“Non posso dire che allora sapessi cosa stava facendo Moggi dietro le quinte, ma era inevitabile farsi delle domande. Una volta, quando giocavo ancora nel Bologna, giocammo in casa contro la Juve di Moggi. Eravamo riusciti ad andare in vantaggio 0-2, ma negli ultimi 15 minuti loro pareggiarono e per poco non vinsero addirittura la gara”.
Avevi l’impressione che certi arbitraggi fossero pilotati?
“La parzialità degli arbitri certe volte era evidente. Alla fine però la verità salta sempre fuori. Credo che Calciopoli abbia fatto bene alla Serie A. I tifosi erano sfiduciati e avevano bisogno di ricominciare a credere nelle partite. Il fatto più positivo è stato vincere i Mondiali 2006. Dopo tutto quello che era successo, la Coppa ha curato una ferita”.
Nel 2003 siete riusciti a portare a casa il derby d’Italia.
“E’ stato molto emozionante. Era il novembre 2003, per tutta la settimana non si era parlato d’altro. La Juve era in testa con Milan e Roma, l’Inter inseguiva tra mille problemi”.
Cosa non funzionava?
“La squadra non riusciva ad essere omogenea. Erano più di 10 anni che non si vinceva a Torino in campionato e Alberto Zaccheroni era appena arrivato. Una doppietta che mi ha fatto entrare nella storia dell’Inter. Il primo gol su punizione e il secondo raccogliendo una respinta su una mia conclusione precedente. Tutto fantastico. Non riuscivo a credere di essere proprio io il protagonista”.
Molte volte ti sei accomodato in panchina.
“Sì, all’inizio con Mancini è stato così. L’Inter aveva grandi giocatori: Adriano in splendida forma, in attacco si alternavano campioni del calibro di Crespo, Figo, Vieri, Ibrahimovic. Io sono sempre stato un tipo che cercava di lavorare perché l’allenatore mi tenesse in considerazione”.
Puoi dire di esserci riuscito, essendo rimasto all’Inter sei anni.
“Non mi lasciavano andare via. Quando ho chiesto di andare via, Moratti mi ha detto: ‘No, tu sei fondamentale e devi restare’. E alla fine si è visto come è andata a finire: quello che giocava ero io”.
Sei diventato una specie di jolly.
“Ho sempre avuto ben chiaro che la squadra viene prima del giocatore. Mancio non lo ha mai detto in pubblico, ma nello spogliatoio ci ripeteva: ‘All’Inter ci sono troppi capitani e pochi soldati’. Allora ho capito che io dovevo fare il soldato. C’era bisogno di qualcuno che completasse l’azione. Quando è arrivato, Mancini ha indirizzato il lavoro proprio su questi rapporti di forza e la squadra ha iniziato a ingranare. Certo, il generale aveva a disposizione ottimi soldati”.
E con José Mourinho, invece? Hai avuto una relazione di amore-odio, a volte ti attaccava, altre gli risolvevi la partita.
“Non ho mai amato o odiato nessun allenatore, per me il calcio era un lavoro e ho sempre cercato di viverlo in modo professionale”.
Non si può dire che Mourinho riesca sempre a fare lo stesso.
“Mourinho è una persona strana, ma non voglio criticarlo perché per me è un vincente e i vincenti hanno sempre ragione. Posso dire che quando tra noi c’erano problemi, né i tifosi né il presidente mi hanno mai lasciato solo. Sentivo sempre il loro appoggio”.
Quando sei andato via nel 2009 è stato per colpa sua?
“Me lo chiese anche Moratti, che mi disse: ‘Guarda, Julio, che gli allenatori passano. Spero non sia questo il problema’. Non era così, infatti: c’erano motivi personali, voglia di provare una nuova sfida”.
Nel 2008 ti trovasti in una situazione simile, cosa ti convinse a restare?
“Credo che il 2008 sia stato il mio anno migliore. Il Barcellona insisteva per comprarmi, avevo offerte dalla Russia ma io volevo solo l’Inter. Il presidente mi disse che se volevo restare, per lui non sarebbe stato un problema economico. Gli risposi che neanche per me era una questione di soldi. Superato un certo livello non fanno più tanta differenza”.
Eri diventato uno dei punti fissi della rinascita:
“Sono arrivato con Cuper, poi c’era Zaccheroni. Erano momenti difficili, pensai molte volte di andarmene perché la situazione era quella. Con Mancini le cose sono cambiate, vincevamo un trofeo dopo l’altro. Se mi guardo indietro non ho dubbi, rifarei le stesse scelte. Ho dato tutto all’Inter e l’Inter mi ha ricambiato”.
Con chi sei rimasto più amico, in quella squadra piena di argentini?
“Con un portoghese: Luis Figo. Siamo sempre usciti insieme, eravamo compagni di stanza, ci sentiamo spesso benché siamo lontani. Poco tempo fa è venuto Olivier Dacourt, anche lui è un grande amico. Conduce un programma in Francia, è molto preparato”.
Se potessi scegliere un collega di reparto ideale fra i tanti con cui hai giocato, chi prenderesti?
“Ibrahimovic, anche se siamo entrambi alti. Francesco Guidolin a Bologna mi fece giocare bene con Beppe Signori. Con Ibra però c’era qualcosa in più. Lui ha un’agilità incredibile. Ci capivamo alla perfezione. Eravamo amici anche fuori dal campo, e questo ci aiutava a migliorare la sintonia di gioco. C’è stato un anno in cui lui fece 22 gol e io 19, per dare un’idea di quanto funzionasse l’intesa”.