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Il poster della diversità, regia epic(a) da sballo, non basta essere se stessi

di Niccolò Anfosso
In principio era una partita a scacchi, in cui vince chi capisce il senso della mossa compiuta dall’avversario e prevede la successiva, per poi decidere, sulla base di quella, la propria. E in principio sembrava che l’Inter si fosse affezionata a quel tempo sospeso attorno a se stessa, racchiuso in una tensione di luci e ombre che la disturbano fino alla partenza d’un colpo ad effetto che morde ogni volta come fosse la prima e rimane lì, dopo aver cucinato l’Udinese a fuoco lento, come il più regolare dei passisti, a prolungare il respiro in un'apnea, a scatenare una lampante dimostrazione di non essersi involuta affatto, né imborghesita. Perché basta una minuscola fenditura nel legno di quella porta che s'era detta stregata perché i distopici presagi escano in un soffio violento che folgora di onde abbaglianti la strenua gagliardia bianconera, facendone crollare impietosamente gli anelli di congiunzione. Ma quale cortocircuito d'identità, c'era solo da impossessarsi delle due chiavi che chiedevano di forzare la serratura della realtà per indirizzare i destini di ciascuno.

IL POSTER DELLA DIVERSITÀ. Luce fu, procrastinata, ma fu. Come un fulmine che squarcia il cielo. Nel grigiastro primo tempo del Meazza non scintilla nemmeno un filo d’erba, ed ecco che ci si ritrova punto a capo, asserragliati in una strada che sembra finire lì. Serviva vedere Sanchez scaldarsi a bordo campo per scuotere il moto d’orgoglio di Correa, per fargli colorare di nerazzurro l’autorevolezza d’un primo pomeriggio che non aveva preso la direzione che “El Tucu” aveva pianificato ai blocchi di partenza. C’è stato un attimo, e non dev’essere stato quello fuggente però, in cui l’argentino ha pensato ch'era il momento d'attingere ad una mossa scevra d'ogni forma di razionalità, per far riemergere il suo fascino estroso e incantevole, delizioso nelle movenze. E ha deciso nel momento più opportuno di gonfiare il petto, scandagliare l'attrezzo più pregiato d’un bagaglio tecnico sconfinato nella sua mattonella per regalarsi la serafica gioia. Ma non c’è nemmeno bisogno di infilare la testa nel pallone alla ricerca del colpo d’autore per rintracciarlo in tutta la sua bellezza. E lo sa bene Perisic, che aprirgli il prato significa goderselo interamente, in un’esecuzione funambolica, che diviene abbagliante nello slalom che disorienta i difendenti e sgretola dubbi, angosce e perfino i fantasmi già in procinto di calarsi sul prato verde per ordire il più classico scherzetto nella domenica di Halloween. Invece no, eccola lì, la gemma intrisa di dolcificante, a dare una spallata consistente alla resistenza gottiana, infilata e stordita da una lieve puntura, bissata con la freddezza glaciale dalla seconda istantanea perlustrazione di chi scarica onde elettriche sotto la traversa per non rischiare di rimanere con la tensione addosso. Ma cosa volete che sia mettersi in pace con se stessi, angolare il giusto e gustarsi il boato di San Siro?

REGIA EPIC(A) DA SBALLO. La Grande Bellezza, rieccola qua (ma quando mai se n’è andata?), in un remake che ancora rapisce: risiede (e pare non voglia andarsene) nei 90’ in cui Brozovic dispensa il meglio di sé, palleggiando e quasi sfilando su un red carpet che si autocostruisce a suon di trame ragionate con una mente che sta sopra ogni immaginazione. Per sgomberare il pallone da ogni equivoco basta posizionarlo nella zona del croato, che si muove a destra e a sinistra, indietreggia per attrarre gli avversari, modella la manovra a sua immagine e somiglianza sublimando con efficienza i tocchi verticali; poi la plasma, la strattona quando serve, dandole un ordine nel comando dello sviluppo, con la delizia di disegni che trasformano in un lampo la fase passiva in quella attiva. Una domenica consumata tra gli spazi, a far oscillare il lungo collo per diffondere il verbo della pulizia. Ne è passato di tempo, ma esteticamente non è cambiato niente, è sempre la scatola armonica a produrre i suggestivi motivi musicali che tambureggiano la morfologia della costruzione. E quando il metronomo (dal greco "legge della misura") attiva i pulsanti magici perfino i tackle diventano glassa da gustare dolcemente. E da leccarsi le dita.

(NON) BASTA ESSERE SE STESSI. Una battaglia campale, maschia e vibrante: l'operazione di bloccaggio dura poco più d'un tempo. Perché, in fondo, è sempre così: l’impresa eccezionale sta nell’essere se stessi. Nel manuale di riferimento non serve per forza di cose elucubrare nuove intenzioni, se la funzionalità del proprio piano non inficia per nemmeno una manciata di secondi la temperatura dell’andamento evolutivo. E l’Udinese di Gotti utilizza la miscela più congeniale alla sua natura fisica e arcigna per appianare le differenze tecniche tenendo con compostezza le zone del campo attraverso il soffocante uomo contro uomo. Per farsi depositaria delle certezze più granitiche si decide di lucrare sulla creazione di cerchi concentrici che finiscono per ingarbugliare l’Inter in un groviglio di idee confuse e operazioni velleitarie. Nella lotta feroce il fondamento ontologico contiene un flusso copioso e ininterrotto di densità e di mutuo appoggio, tipico delle piante, che prevede l'interconnessione d’ogni singola pedina, coordinata da un pragmatismo estenuante, ai limiti del diabolico. Ma talora vale la pena di correre un pericolo, ed ecco che proprio lì dentro si rischia d’essere respinti da una fragorosa spigolata che ti costringe a mutare il modo d’essere se stessi, ad ondeggiare in un vuoto indefinito. È il (quinto) pareggio, un’illusione e semmai un errore. Si pensava fosse un muro, era una parete di foglie.
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