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Il timbro perenne del Toro nella fredda Salisburgo: tre punti di pregio, consistenza e qualità

di Niccolò Anfosso

Sempre elettriche le serate di Champions League. Prendere confidenza con gli avversari è, da sempre, un aspetto rilevante nel manuale del calcio europeo. Calhanoglu, d'altronde, aveva anticipato quello che si sarebbe aspettato: una gara simile all'andata. E in effetti l'avvio dell'Inter a Salisburgo è equilibrato sul piano della posizione, manca brillantezza sugli esterni e l'innesco giusto. Non una partenza arrembante, anche perché gli austriaci partono imponendo i propri ritmi, come uno scalatore verso la montagna. Il marchio di fabbrica (quasi) scientifico della gestione, tra pressing e giocate ragionate, è lo stesso della gara di San Siro: iniziativa insistente dei padroni di casa, che non riescono a capitalizzare la consistenza offensiva negli ultimi metri. Bidstrup non trova lo specchio della porta e il Biscione tira un sospiro di sollievo quando Oscar Gloukh, anziché premiare Konaté pronto a recarsi davanti a Sommer, verticalizza, in modo apparentemente decentrato, per Roko Simic, facendo sfumare una grossa opportunità.

RICERCA DELLA VERTICALITÀ: UNA PROIEZIONE. La costruzione del Salisburgo è incentrata alla verticalità, l'Inter cerca di far ruotare il pallone con tocchi rapidi e convincenti, ma i movimenti complementari ad attaccare la profondità o venire incontro in un primo momento si scagliano contro la fisicità austriaca. Nessun canovaccio innovativo: quando Calhanoglu pennella come sa far lui, Bastoni quasi si sorprende dalla mancata presenza di un difensore a ostacolarlo. Un'assenza-presenza, o presenza-assenza, che confonde il difensore nerazzurro. Quando Thuram strappa emerge tutta la difficoltà nella corsa all'indietro della retroguardia austriaca: palla a rimorchio per Sanchez, riciclo per Frattesi che manca un rigore in movimento. Su entrambi i fronti, nei primi 45', si configura un aspetto preponderante: c'è sempre una pedina disponibile a fornire il rimorchio. Soluzioni adottabili per l'attacco della profondità o per aggredire in avanti lo spazio. Sterzate e ripartenze: la proiezione è sempre verticale, un finale di primo tempo in crescendo. Manca solo il guizzo vincente.

CHI, SE NON LUI: IL TORO SEMPRE DECISIVO. A inizio ripresa le due squadre si compattano ed emerge un'aggressività prorompente. La concessione all'avversario della possibilità di colpire non viene contemplata. Seppur la sfida abbia la propria vita sul dinamismo a sprazzi, i ventidue calcianti giocano senza remore e con l'interruttore dell'accelerazione quasi sempre in modalità on. Alcuni eccessi costruttivi imprecisi della difesa di Inzaghi conducono gli austriaci sul binario della gestione. Azioni telecomandate non se ne vedono, ma lo sviluppo è pur sempre costruttivo e indirizzato sugli entusiasmi di pedine rampanti pronte a scatenarsi da un istante all'altro. Il livello attenzionale è massimo. D'altronde così deve essere, come un imperativo categorico e decisionale. Strappare le energie sfruttando anche le più piccole crepature avversarie è l'obiettivo dell'Inter. E quando il Toro Lautaro Martinez entra in campo, tutto può mutare. Come un corso d'acqua che fluisce. E lo stacco in torsione, mandato sulla traversa dal portiere degli austriaci, è l'indirizzo apparentemente più rappresentativo di questa notte. Il tiro di Barella sbatte sul braccio galeotto: è penalty. Chi, se non lui: Lautaro, freddissimo, glaciale dal dischetto. Semplicemente il senso del tempo per scatenarsi ancora, ancora, e ancora. A ripetizione. Che coppia con Thuram...!


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