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Zanetti a 360°, dall'infanzia all'Inter: "A Barcellona Mou voleva vincere"

di Daniele Alfieri

La storia di Javier Zanetti attira tutti, non solo in Argentina, dove è diventato un simbolo della Nazionale, e in Italia, in cui ha trascorso 16 stagioni all'Inter da assoluto protagonista. A poche ore dal debutto in campionato contro il Palermo, vi proponiamo la favola calcistica raccontata dallo stesso capitano nerazzurro, intervistato dal sito portoghese ionline.pt:

Ti chiami Javier Adelmar Zanetti. Ma nessuno in famiglia porta il nome Adelmar, sembra venire dal nulla.
Adelmar era un medico che mi ha salvato la vita quando ero un neonato. Avevo un problema di respirazione e lui disse a mia madre di stare tranquilla perché si sarebbe trovata una soluzione per questo problema. Andò così e mia madre gli promise che mi avrebbe chiamato Adelmar.

Questo però non è stato l'unico problema nella tua infanzia, vero? Mi pare di aver letto che il tuo caso fosse simile a quello di Messi.
Sì, ero molto piccolo. C'è voluto tanto tempo prima che io crescessi. La mia famiglia mi ha portato da tantissimi dottori. Alcuni dicevano che era un problema, altri invece no e che prima o poi sarei cresciuto. Mi hanno fatto fare una serie di test, fino a quando il medico dell'Independiente rassicurò mia madre. Aspettammo, aspettammo, aspettammo, e all'improvviso feci il salto.

Come si chiamava il medico?
Rodríguez.

E non hai preso anche quel nome?
No, in questo caso non era possibile. Ero già ragazzo (ride, ndr), non potevo farlo.

E l'Independiente ha aspettato che tu crescessi?
No, ma dovrebbe succedere con un sacco di ragazzini. Non crescono subito e vengono respinti dagli allenatori perché non sono in grado di giocare. Lo capisco e non porto rancore. È come quel dottore...

Quale?
Uno dei tanti consultati dalla mia famiglia. Mi ha dato una dieta a base di lenticchie e fagioli. E sai a cosa mi ha portato?

No, non lo so.
Ho una avversione per le lenticchie e fagioli, uno dei cibi che non posso nemmeno guardare, e mia madre lo sa...

E tuo padre?
Anche. Parlo molto di mia madre, perché una madre è una madre. Mio padre è stata la persona che mi ha spinto a giocare a calcio. Un giorno, quando avevo 11, 12 anni, lo stavo aiutando con il lavoro per la casa di alcuni amici che erano lì e che mi invitarono a giocare. Risposi di no perché ero impegnato ad aiutare mio padre. Poi lui mi chiese se mi piaceva il calcio, gli dissi molto e mi incoraggiò a cercare un club.

Come esterno?
No. All'inizio giocavo dappertutto. Giocando in strada non ci sono ruoli definiti. O nel mio giardino. Sporcavamo i vestiti stesi da mia madre facendola arrabbiare tanto.

E dopo?
Dopo siamo cresciuti, io, mio ​​fratello e i nostri amici, e mi fu consigliato di giocare come laterale. Perché tornavo indietro, perché avevo una grande visione di gioco ed ero bravo in difesa. Tanto fecero che mi convinsero.

Sei arrivato all'Inter a soli 22 anni, provenendo dal Banfield, un club modesto dell'Argentina. Qualcuno in Italia ti conosceva?
Pufff, non credo proprio. Nel 1995 non c'era Internet, niente video... Un furgone dell'Inter mi portò in sede, dopo la presentazione ufficiale. Poi andai in ritiro in montagna. Arrivai lì con un sacchetto di nylon in mano e nient'altro. C'era un mare di gente venuta a vedere la squadra e ho dovuto chiedere permesso a tutte le persone per raggiungere il campo. Ovviamente, nessuno mi conosceva tra i giornalisti e i tifosi. Quando sono entrato in campo mi sono presentato all'allenatore, misi le scarpette e cominciai ad allenarmi. Poi ho sentito che qualcuno diceva: "Ma questo è quello che ci è passato accanto!". Che commedia.

Allora non c'erano neanche i telefoni cellulari.
Non era questo il problema. I telefoni cellulari c'erano, ma il ​​problema era il costo delle chiamate. Altissimo. Per telefonare in Argentina...

Come hai risolto il problema?
Comprando una scheda telefonica e andando a telefonare in una cabina telefonica, distante due isolati da casa mia.

Non ci credo.
Proprio così. Passavo ore e ore in cabina e finendo soldi e schede. Immagino la gente che passava cosa pensasse di me. Le porte non si chiudevano completamente e faceva perecchio freddo in inverno! Congelavo dentro. Così dovevo parlare, parlare e parlare (ride, ndr).

Poi hai preso il cellulare...
No, no. Poi ho preso un fax. Ne acquistai uno e la mia vita dipendeva da questo. Spedivo di tutto in Argentina, lettere, messaggi...

Quante differenze con oggi... Qualcosa che invece si è mantenuta nel corso di questi 17 anni?
Solo il mate (bevanda argentina, ndr). I vicini di casa mi chiedevano cosa prendessi, se fosse droga! Poi si sono abituati.

Parlando di auto, è vero che il capitano Bergomi ti chiese di prendere una BMW per l'allenamento?
Sì, certo. Non avevo idea di come fosse l'Inter. Avevo paura di essere guardato male se fossi arrivato con una macchina potente. Quando arrivai all'allenamento, la mia auto era la meno appariscente di tutti. Io preoccupato e gli altri con Ferrari e auto simili.

2010, un anno di emozioni contrastanti per Zanetti: l'Inter campione d'Europa e la mancata convocazione ai Mondiali con l'Argentina.
Sì, era tutto strano. Quando ho letto la lista dei convocati, Cambiasso e io eravamo fuori. C'erano invece Samuel e Milito. Fu una sorpresa. Per tutti. Anche Mourinho è rimasto sbalordito, ma sono cose che nel calcio capitano.

Mourinho... È vero che con lui hai segnato l'unico rigore della tua vita?
Sì, a Roma nel suo esordio in Supercoppa Italiana. Ho segnato quella volta giurando che non avrei più calciato un penalty. È un'enorme pressione camminare dal centrocampo al dischetto del rigore e vedere i tifosi con le mani sulla testa. Pensa se avessero saputo che non non ne avevo mai battuto uno. Quel rigore, tirato alla destra del portiere, ci fece vincere la Supercoppa, dopo l'errore di Juan.

Che ricordi hai della semifinale di Champions Barça-Inter?
Stupendi. Abbiamo eliminato la migliore squadra del mondo. La gente ricorda la gara che facemmo al Camp Nou, ma dimentica il primo match a Milano, dove abbiamo vinto 3-1 meritatamente. La stampa ha esagerato molto, però ci siamo qualificati, non è vero?

Com'era l'ambiente nella seconda partita?
Mourinho voleva vincere la partita schierando una squadra con quattro giocatori offensivi: Sneijder, Pandev, Milito ed Eto'o. Volevamo sorprendere il Barcellona al Camp Nou. Poi nel riscaldamento Pandev si è infortunato. Ha giocato Chivu e quindi eravamo meno offensivi. Era previsto che nella ripresa sarebbe entrato un quarto attaccante, ma tutto si è complicato con l'espulsione di Motta nel primo tempo. Eppure, siamo riusciti a qualificarci eliminando la squadra migliore del mondo.
 

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