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Zhang: "Sul mercato c'è un rischio, ne parlo con Ausilio. Lezione da Moratti, ecco chi mi suggerì Marotta. Mio padre..."

di Alessandro Cavasinni
Fonte: Gazzetta dello Sport

Dopo le anticipazioni della notte (RILEGGI QUI), arrivano altre parole di Steven Zhang dalla sua intervista alla Gazzetta dello Sport.

Lei ormai vive a Milano e sembra perfettamente inserito in città. Si sente pure un po’ milanese?
«Amo molto Milano. Ho imparato a conoscere cultura, tradizioni e mentalità italiane. Ai miei amici dico spesso che oggi mi sento 40% cinese, 30% americano, 20% italiano e 10% cittadino del mondo. Non parlo ancora correttamente l’italiano ma lo capisco. E il modo di pensare dei cinesi è abbastanza simile al vostro».

Il calcio è un’azienda particolare: richiede managerialità ma anche passione. Quanto è importante trovare il giusto equilibrio? E la passione crescente per l’Inter l’ha portata a qualche scelta poco razionale?
«È un rischio che corro durante il calcio mercato quando voglio comprare subito i calciatori migliori e non guardo il budget o il bilancio. Sì, a volte accade che la passione travolga la parte razionale, quando si fanno acquisti o si decide di non cedere... Spesso chiedo al nostro ds Ausilio: “Piero, non è che stiamo facendo un errore?”. Il dialogo con i miei dirigenti è fondamentale per cercare quel famoso equilibrio tra razionalità e passione».

Lei ha dimostrato di saper scegliere i suoi tecnici: Pioli, Spalletti, Conte e ora Simone. Tre di loro hanno vinto gli ultimi tre scudetti e uno è in finale di Champions. Ci regala un giudizio su ognuno?
«Mi hanno tutti insegnato qualcosa. Pioli è stato il primo allenatore con cui ho lavorato in vita mia. Volevo avere un tecnico italiano che conoscesse perfettamente il campionato: Stefano mi ha dato le basi. A Spalletti sono molto legato perché ha tracciato un solco fatto di gioco, lavoro e risultati, riportando l’Inter in Champions League: un obiettivo fondamentale in quel momento. Con lui abbiamo avuto una delle migliori difese ed ho capito l’importanza di un grande reparto arretrato se si vuol vincere. Sa cosa mi disse una volta Moratti?».

No, ce lo racconti.
«Caro Steven ho fatto tanti errori durante la mia presidenza, focalizzandomi solo sui grandi bomber, ma quando ho iniziato a comprare i grandi difensori, allora ho cominciato a vincere. E mi citò Samuel... È una lezione importante che ho appreso da lui».

Conte?
«Da quando acquistammo l’Inter ho subito desiderato un giorno di avere Conte in panchina. È un tecnico duro, di forte personalità, credo di non averlo mai visto felice, appagato o sorridere. Dopo una vittoria pensava subito alla successiva, senza mai un momento di relax o di soddisfazione. Ma è così che ha riportato lo scudetto all’Inter dopo 10 anni, interrompendo un ciclo della Juve che sembrava infinito».

Lei è sempre molto composto, ma in tribuna a San Siro, quando l’Inter sbaglia una grande occasione o subisce un gol, non le esce mai una imprecazione in italiano?
«Yes, i say… vaffanculo!».

Suo padre segue sempre l’Inter? E verrà ad Istanbul per la finale?
«Papà è legatissimo all’Inter, segue tutti i campionati anche quelli stranieri e le coppe. Sta cercando di farci una sorpresa e venire domani, ma non è semplice incastrare i suoi impegni di lavoro».

Come si può sintetizzare il progetto societario dell’Inter?
«Un giusto mix tra tradizione e innovazione. Abbiamo un forte legame con la storia e le radici nerazzurre, teniamo molto al rapporto con i tifosi e il territorio. Ma abbiamo anche uno sguardo sempre proiettato nel futuro».

Lo dimostra la nuova moderna sede nella zona dei grattacieli e il fatto che il club sia passato da 120 a 600 dipendenti. L’Inter non è mai stata così Internazionale, eppure il management è rimasto tutto italiano. Perché?
«Spesso le aziende straniere quando vanno all’estero fanno l’errore di non capire com’è la cultura del Paese. Se pensi di dominare il mercato senza conoscerlo, rischi solo di essere arrogante. Sei o sette anni fa quando arrivai in Italia fu Urbano Cairo a darmi il primo consiglio: se vuoi vincere hai bisogno di qualcuno che conosca bene il nostro calcio e come funziona un club. E poi mi fece il nome adatto: Beppe Marotta. Se vuoi stare in un Paese devi anche saperti adattare a quel Paese. Io ho bisogno di manager italiani».

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