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Boninsegna, riecco il bomber operaio: "Sto con gli operai della Burgo. La loro storia è anche la mia"

di Alessandro Cavasinni
Fonte: Gazzetta dello Sport

Nel febbraio 2013 la fabbrica ha chiuso: i padroni hanno deciso che non si produce più, stop, tutti a casa. Ora ci sono 174 dipendenti in cassa integrazione, 900 euro al mese fino al febbraio 2014. La storia è nota e viene rilanciata dalla Gazzetta dello Sport, anche perché c'è Roberto Boninsegna a evidenziare il disagio. "Sono qui alla Cartiera Burgo per solidarizzare con gli operai che sono rimasti senza lavoro. Tanti anni fa mio padre Bruno era uno di loro, la loro vita è anche la mia". Il centravanti-operaio si chiama Roberto Boninsegna, tra una settimana compie settant’anni. Dentro lo stabilimento, in sala mensa, gli hanno organizzato una festicciola alla buona: risotto, salumi e lambrusco. Lui ringrazia, alza il bicchiere, brinda, sorride e parla. Di se stesso e della sua carriera, ma pure del papà comunista e sindacalista. "E anche mangiapreti. Però, anche se lui non metteva piede in chiesa, mi faceva andare a giocare all’oratorio. Mio papà ha sgobbato qui dentro per 36 anni. Faceva il saldatore e lavorava senza mascherina: si copriva la bocca con un fazzoletto e quel fazzoletto, alla fine della giornata, era verde. Per evitare intossicazioni i padroni gli davano mezzo litro di latte. Gratis. Erano gli anni Cinquanta. Veniva a casa stremato, non ne poteva più. Ma lottava, lottava tutti i giorni". Bruno Boninsegna era membro della commissione sindacale interna. Andava a trattare con i direttori in giacca e cravatta. "Ha ottenuto, tra i primi in Italia, il premio di produzione aziendale. E poi si era inventato lo sciopero a singhiozzo, fischiava e gli operai si fermavano". Erano anni di sacrifici e di sudore. Di ricchezza e di povertà. "E, soprattutto, di dignità. La dignità del lavoro". Le vicende della Cartiera Burgo s’intrecciano con il calcio quando il centravanti-operaio ricorda la notte prima del suo provino all’Inter. "Ero nervoso, il giorno dopo mi aspettavano a Milano. Mio padre mi vede un po’ così e mi dice: “Sta’ tranquillo, tanto il posto alla cartiera c’è già...”. Allora il lavoro si tramandava di padre in figlio: se non fossi diventato calciatore, sarei stato un operaio, probabilmente un saldatore".

 


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