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Gianfelice Facchetti: "Il ricordo di papà è presente e costante. Chissà cosa avrebbe potuto fare con Balotelli"

di Mattia Zangari

Quattordici anni senza Giacinto Facchetti, leggenda dell'Inter e del calcio italiano. Un'assenza che pesa ancora tantissimo, colmata parzialmente dalla memoria dell'uomo e del calciatore: "Fortunatamente il ricordo personale, ampliato da una eco più pubblico e popolare, è presente e costante - spiega il figlio Gianfelice ai microfoni di TMW Radio -. Papà non ha mai smesso di essere presente nella mia vita, in quella dei miei familiari e dei tifosi interisti. Il 4 settembre ricorda la sua assenza, io preferisco la data della nascita ma l'affetto fa piacere, è sempre bello che si racconti qualcosa. Pensieri, aneddoti e parole a noi rimasti per fortuna sono davvero tanti. Lui è rimasto nel mondo del calcio con la stessa passione del ragazzino, consapevole che le differenze c'erano e di quanto siano aumentate certe cifre e certi guadagni. Era convinto che qualcosa di buono sarebbe venuto fuori, altrimenti non sarebbe rimasto fino alla fine. Nei mesi scorsi ho potuto collaborare col settore giovanile dell'Inter e vedo la volontà di mantenere la sua testimonianza, oltre di quelle delle altre bandiere interiste. Forse mai come oggi siamo così attenti a commemorare e ricordare, una volta si era più proiettati in avanti".

Una partita di suo padre che avrebbe voluto vedere dal vivo?
"Le due cui era più affezionato erano la semifinale di Coppa Campioni del '65 col Liverpool, e la rimonta storica chiusa col gol suo a concludere un'azione corale. E poi Italia-Germania 4-3, della quale da poco abbiamo celebrato i cinquant'anni. Forse il momento più alto del suo ciclo azzurro, nel giorno in cui torna a giocare la Nazionale vorrei ribadire che l'amore per l'Italia è stato pari per quello verso l'Inter".

Lui e Scirea sono due icone il cui lascito si avverte a distanza di anni. Sarà facile mantenere ancora fede ai loro messaggi?
"Questa è la sfida, che si riesca a mantenere uno spazio per l'umanità degli atleti e ciò che lo sport rappresenta nella vita, senza mercificare o svendere tutto. La sfida va raccolta con tutte le forze, e io sono ottimista: la sensazione è che manchi il desiderio di azzardare un po' di più nel raccontare certe cose, mentre la stampa tende ad enfatizzare le cose negative. Per formare abbiamo il dovere di osare sulla speranza, credendoci sul serio. Quando poi si condividono con loro storie che vengono da lontano, si scopre che non aspettavano altro. Raccontare ciò di cui siamo stati testimoni, senza presumere di aver visto il meglio, o non ci sarà futuro".

Il calcio come entrava in casa vostra?
"Ci sono stati momenti diversi, e di fondo c'era la cosa che per lui il pallone fosse il mondo del lavoro, e per proteggerci anche un po' dall'esterno non si lasciava sfuggire quasi mai nulla, non se le faceva scucire le cose. Una volta ricordo che si lesse sul giornale che Adriano stava arrivando: gli chiesi conferme e si arrabbiò tantissimo. Adriano poi disse di aver trovato in lui una sorta di secondo padre... Quando trovava ex compagni si lasciava andare un po' ai ricordi, ma senza esagerare, anche perché lo esaltavano sempre e si sentiva quasi in imbarazzo verso il figlio. A quel punto della storia ho cercato di ricucire dei pezzetti che non avevo avuto, in primis con noi si rapportava da padre, con affetto ma sulle cose della vita quotidiana. E questa cosa l'ho apprezzata tantissima, ogni tanto ci ragiono. Avrebbe potuto giocare molto più facilmente sul velluto...".

C'è un episodio che la lega in particolare al ricordo di suo padre?
"Tantissimi, e altri ne ritrovo. Mi basta riordinare vecchie fotografie per riscoprire incroci di date, luoghi, situazioni e piccole cose che ha fatto. In mezzo alle montagne qualche giorno fa c'era un signore che mi ricordava una serata musicale di 30 anni fa in un club in provincia di Vicenza, mi ha anche mandato le cose".

Oggi possono esserci dei nuovi Facchetti?
"Bene coltivare la speranza che ci siano nuove bandiere, nuovi idoli, che magari ci appassioneranno in modo diverso. Figure come quella di Scirea e di mio padre, storie così, sono state figlie di un tempo in cui attorno c'erano aspetti differenti, e le società facevano più fatica a sbarazzarsi di certi giocatori. Se vai a vedere l'intera carriera di mio padre, negli ultimi anni quando magari sono capitate stagioni non buone, c'era chi diceva che c'erano troppi vecchi. Eppure nel '74 aveva 32 anni... Sono percezioni diverse. Con meno enfasi comunicativa c'era più tempo per guadagnarsi i gradi di campione e bandiera, automaticamente anche per perderli. Oggi al primo gol è prima pagina e lauto contratto dopo pochi mesi, ma sbagli una stagione e rischi di dover ricominciare daccapo. La risalita, poi, non è così immediata". 

Un ultimo aneddoto.
"Alla vigilia della prima convocazione in Nazionale papà aveva avuto un piccolo incidente all'uscita di una balera. E lì entravi alle 21 per uscire alle 22,30, non alle 3. Andò fuori strada con la macchina di Bruno Bolchi, che gliel'aveva prestata: si tagliò un labbro e si incrinò le costole. Rischiò la convocazione, ma alla fine toccò a lui. Se questo capitasse a un 20enne verrebbe martirizzato dalla stampa e rischierebbe di passare un bel po' di tempo prima di una nuova. Non c'è da santificare nessuno: mio padre è stato un atleta come tutti, e anche lui da giovane, è incappato in qualche falla. La vita è così: si sbaglia, ma non è giusto che si paghi per ogni minima sciocchezza. Mancano anche le figure che li accompagnino in questo percorso di crescita. Da tifoso dell'Inter mi è rimasta di traverso la storia di Mario Balotelli, che era un talento pazzesco. Mi dispiace che non sia mai riuscito fino in fondo nessuno ad aiutarlo, e ogni tanto penso: chissà, se ci fosse stato Giacinto, cosa sarebbe potuto succedere. Poteva spaccare il mondo eppure è finito ai margini del calcio che conta". 


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