Inter regolare ma debole, lo Slavia onora la storia di San Siro. Conte fa mea culpa, la Champions inizia con una storta
Praga, 1938. Mentre Hitler si prepara ad invadere la Cecoslovacchia, nella capitale dell'ex stato austroungarico si presenta una delle squadre calcistiche più in vista del panorama italiano. Il Belpaese domina in campo europeo, nonostante i grandi cambiamenti imposti da Lando Ferretti. La Carta di Viareggio del '26 è stata chiara: i nerazzurri di Milano - visto che la Figc di Arpinati è asservita al regime fascista - non potranno più chiamarsi Internazionale, bensì Ambrosiana, perché nel frattempo le frontiere del campionato son state chiuse (con buona pace di Muggiani e compagnia) e la società si è anche fusa con i concittadini dell'U.S. Milanese. Insomma, un pastrocchio. Nel '38 si gioca la Coppa dell'Europa Centrale e lo Slavia Praga viene sorteggiato come rivale dei meneghini nei quarti di finale. Il Consiglio Direttivo della Capitale non sa, ancora, che da lì a poco la nazione sarebbe stata interamente invasa dalle truppe naziste. Siamo in un'epoca nella quale i boemi possono vantarsi dell'appellativo di "maestri" del football. E non si smentiscono: all'andata con l'Ambrosiana finisce addirittura 9-0; non basta ai nerazzurri il 3-1 inflitto nella gara di ritorno a Planicka e compagni.
Quando le dirigenze di Inter e Slavia Praga s'incontrano a poche ore di distanza dal fischio d'inizio della sfida di Champions League, la società biancorossa celebra l'antiquata impresa compiuta dalla squadra di Bican con una targa commemorativa. Non il modo migliore per augurare buona fortuna alla Beneamata. La quale, reduce da tre vittorie consecutive in Serie A, vorrebbe scendere in campo per archiviare fin da subito la pratica ceca in modo tale da volgere lo sguardo alla prossima stracittadina contro il Milan, in programma sabato sera. È la gara più facile di girone infernale, pertanto la vittoria per i nerazzurri è un obbligo. Ma gli ospiti vogliono onorare la storia di San Siro e riescono, incredibilmente, a prendere il sopravvento già nei primi minuti. Battono il calcio d'avvio: i padroni di casa toccano palla per la prima volta dopo due minuti abbondanti. Pian piano si finisce per giocare in una sola metà campo, fra trame offensive ben architettate e qualche giocata da circo con la quale i boemi acquisiscono consapevolezza.
Se in campo non c'è uno che fa la giocata che vale il prezzo del biglietto, gli spettatori rivogliono indietro i soldi. Funziona così, nell'Europa dell'Est. Ed è normale a questo punto che le squadre tentino (alcune con risultati modesti, altri in maniera più strutturata) di mettere la fantasia al centro del villaggio. Trpisovsky, cruijffiano convinto, al Meazza schiera in campo nove cechi su undici. Gli altri due sono un ivoriano, Traoré, e la star del calcio romeno, Stanciu, deus ex machina del reparto offensivo dello Slavia. Che gioca un calcio semplice, come lo voleva Johan: per vincere a San Siro contro l'Inter non serve correre come dei matti; basta saper correre bene, coprire tutti gli spazi necessari ed amministrare con ordine la sfera.
E' dagli Anni '30 che contro gli italiani giocano nello stesso modo: possesso palla, passaggi elementari ma efficaci, e quando c'è una mischia si sporca il pallone, facendo affidamento sull'ingenuità dell'avversario (la lezione del Mondiale nel '34 l'hanno imparata piuttosto bene). L'Inter ingenua lo è, fin troppo. La squadra di Conte ("il primo asino che deve andare dietro la lavagna", ipse dixit) non soltanto commette falli risparmiabili, ma non c'è proprio con la testa: i giocatori arrivano sempre con un attimo di ritardo, su tutto. Skriniar dovrebbe difendere l'orgoglio slovacco, invece si adegua al grigiore generale. Handanovic e de Vrij provano a dispensare qualche lancio lungo, ma lì davanti il guerriero bantu si scorda di essere un guerriero e l'eroe di Avellaneda si dimentica di provenire da Bahía Blanca. Tra l'attacco e il centrocampo nerazzurro di metri se ne contano più o meno trenta, ed è quella la porzione di prato in cui gli uomini in maglia biancorossa vanno a nozze, facendo il torello tra uno spaventapasseri e l'altro.
Cos'altro c'è da dire sullo Slavia? Lezione di esistenza umana. Nella vita è importante sapere, e loro sanno cos'è il calcio; ma è ancor più importante saper fare, e loro sanno giocare a calcio; è ancora più importante ancora saperci, fare. E loro son furbetti, al punto giusto: perdono, ad ogni rimessa in gioco, quei venti secondi che non indispettiscono l'arbitro e spostano l'attenzione dell'Inter sul fatto che più il tempo va avanti e più si rischia la figuraccia. È un gioco psicologico che ai cechi conviene, e riesce. Segnano un gol (meritando di passare a condurre), ma poi nel finale crollano. La storia del calcio, ad alti, bassi o medi livelli, è sempre la stessa: quando credi d'aver toccato il cielo con un dito, aspetta prima il triplice fischio. Gli otto minuti di recupero sono un po' eccessivi (così come lo erano i nove gol del '38) e nel corso dell'extratime per la prima volta un calciatore della Beneamata arriva in anticipo su un pallone nell'area dei rivali. Si chiama Nicolò Barella e al suo esordio (da subentrato) in Champions League rinnova la tradizione dei sardi che in tale manifestazione incidono il proprio nome sul tabellino dei marcatori.
Sul conto della formazione locale si registra un'inspiegabile mancanza di personalità, in tutti i reparti. Nessuno tenta di saltare l'uomo, il dribbling non rientra nei piani della squadra e la lucidità lascia il tempo che trova. Brozovic è marcato a uomo: prova ad abbassarsi tra le linee, ma spesso e volentieri commette errori da matita blu che stonano con il suo curriculum (ha meritato di giocarsi una finale di Coppa del mondo, lo Slavia Praga dovrebbe mangiarselo). Nel primo tempo Sensi e Gagliardini tentano di verticalizzare con qualche lancio in profondità, poi nella ripresa si eclissaro anche loro. Soprattutto l'ex Atalanta. Poi nel finale il gol di Barella nasce da una punizione ben calibrata dallo stesso Sensi. Negli ultimi minuti c'è la spinta dello stadio per tentare di completare la rimonta, ma l'Inter si rivela troppo imprecisa.
Serve più cinismo: nel primo tempo De Vrij, Lautaro e D'Ambrosio hanno tre nitide occasioni da rete, una a testa. Robe che se le sbagli in finale di Coppa del mondo non puoi più tornare nel tuo Paese d'origine; magari in un girone di Champions è diverso, ma se non vinci in casa contro lo Slavia Praga... Anche l'anno scorso col Tottenham andò più o meno così. Ma le differenze sono due: in quell'Inter c'era un signore (il male della squadra) che con un gol pazzesco ha riaperto una partita già persa; e un altro, che contro i cechi era in panchina, passato alla storia nerazzurra come "l'uomo della Champions". Ma la sottigliezza, decisiva, è un'altra: fino all'anno scorso si è assistito ad un'Inter pazza, sì, ma capace di regalare una sola travolgente emozione in un'intera stagione. Adesso, pur essendoci meno pathos, quantomeno è entrato in funzione il concetto della regolarità. Mentalità juventina, si direbbe. Ma efficace. La forza, pian piano, la si conquisterà lavorando. A testa bassa, senza mai smettere di pedalare.
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