Luis Suarez significa ancora Grande Inter
In un’ipotetica F.C. Internazionale più forte di ogni tempo, valorosamente guidata da Josè Mourinho e schierata col 4-2-1-3 di tripletiana memoria, giocherebbe dinanzi alla difesa con al fianco l’eccezionale tuttofare Cambiasso. I suoi precisi lanci al millimetro illuminerebbero il favoloso trio d’attacco Ronaldo-Boninsegna-Meazza, le sue stupefacenti doti tecniche ben si sposerebbero con i devastanti inserimenti dell’impetuoso trequartista Matthaeus, la sua immensa intelligenza tattica saprebbe come proteggere al meglio il pacchetto arretrato comandato da Picchi e completato, davanti al geniale portiere Zenga, dal roccioso stopper Samuel e dagli imponenti terzini Maicon e Facchetti. Lui è Luis Suarez Miramontes, esile figlio di un macellaio della nativa La Coruna, l’uomo che esattamente cinquant’anni fa – correva la primavera 1961, stagione divenuta celebre per il primo sbarco nello Spazio operato dal cosmonauta sovietico Jurij Gagarin – con i propri piedi dolci, la costante brillantezza atletica, il fantasioso estro, la competenza agonistica e il volitivo temperamento trasformò l’Inter in Grande Inter. Pilotandola, in stile Gagarin, al di sopra dell’atmosfera calcistica planetaria.
Sul finire di un’annata in cui la compagine nerazzurra aveva incredibilmente visto sgretolarsi il sogno tricolore per colpa di una paurosa crisi di risultati maturata tra marzo e aprile ed anche a causa del consueto potere scandalosamente esercitato dalla Juventus (alla quale venne concesso dalla Caf, organo presieduto dal tifoso bianconero Della Volpe e facente capo al duplice presidente di FIGC e Juve Umberto Agnelli, di ridisputare la decisiva sfida di ritorno contro la Beneamata originariamente persa 2-0 a tavolino), il generoso patron Angelo Moratti ordinò di versare nelle casse del Barcellona una cifra a dir poco sensazionale, 250 milioni di lire che permisero alla società blaugrana d’innalzare di un anello il Camp Nou, per portare a Milano il formidabile regista Suarez. Massicciamente voluto dall’innovatore argentino Helenio Herrera, carismatico tecnico che da una stagione sedeva sulla panchina dell’Inter e che era già stato maestro di don Luis in Catalogna quando ancora il talento iberico giostrava da mezzala, l’asso cresciuto a bistecche paterne sbarcò in Italia in concomitanza dell’ultima ed inutile partita del torneo 1960/’61: dalla tribuna dello stadio di Catania, il riservato ragazzo di La Coruna osservò sgomento il suo futuro club squagliarsi 2-0 sotto l’infuocato sole di Sicilia, iniziando quindi a temere che quello potesse apparire come un cattivissimo presagio per l’avventura che il ventiseienne galiziano, unico giocatore spagnolo ad essersi aggiudicato il Pallone d’Oro e già allora indiscusso faro della Nazionale che si sarebbe laureata campione d’Europa nel 1964, aveva deciso d’intraprendere. Timori, però, immediatamente dissipati: nonostante un primo anno chiuso senza titoli e passato in parte in infermeria per un preoccupante infortunio al ginocchio, che non gli impedì tuttavia di ottenere un notevole bottino di quindici reti in trentadue gare, la sconfinata classe e l’irreprensibile professionalità del numero dieci del Biscione incominciarono da subito a contagiare la squadra, imperniata sulle evidenti capacità dell’atleta ex-Barça e ottimamente amalgamata in un gruppo perfetta sintesi di abili condottieri (capitan Picchi e, appunto, Suarez) e fenomenali astri nascenti (Facchetti, Mazzola e Corso su tutti). Una formazione di cui Luisito, indomito toreador dalle movenze eleganti e dallo sguardo orgoglioso, ne era al contempo motore e cervello.
Motore, cervello, ma anche sommo equilibratore di un team condotto ad una sequenza di strabilianti successi che, a partire dal campionato 1962/’63, caratterizzarono pressoché un intero decennio (sebbene qualche provocatorio pontificatore di Serie B, pur essendo acceso supporter di una compagine che per quarantaquattro stagioni consecutive non ha visto l’ombra di un trofeo, lo abbia con sdegno bollato “un mini-ciclo di due anni a metà anni Sessanta”): scudetti vinti e stravinti, alcuni svaniti di un soffio per sfortuna o discutibili decisioni altrui, imprese e rimonte memorabili, quattro coppe euromondiali sollevate al cielo e quasi altrettante sfuggite ad un passo dal sogno. Gesta divenute leggenda alla pari dell’ultima portentosa epopea nerazzurra, apertasi con la conquista della coppa Italia 2005 e, in particolar modo nelle convinzioni di chi era presente al “Meazza” ed al termine del match si è prodigato in un doveroso applauso verso i componenti di un club che verrà comunque ricordato in eterno come uno dei più forti di sempre, chiusasi nell’amara e surreale serata di Inter-Schalke: un esaltante periodo attraversato da intensa gioia, ostentata fierezza, momenti di folle ed adrenalinica estasi, record imbattibili, gremite feste di popolo, soddisfazioni estreme e, soprattutto, numerosissimi titoli. Per la precisione, dato che un paio di mesi fa sulla sponda rossonera del Naviglio c’è chi si è autoproclamato docente di matematica ad honorem, quattordici in sei anni.
Cifre assolutamente all’altezza delle mirabolanti opere mostrate dalla formazione di cui Suarez era l’anima, una comitiva dalla quale nell’estate 1970 il neo presidente Fraizzoli lo fece partire con destinazione Sampdoria ma, a ulteriore conferma del fatto d’essere sempre stato unanimemente ritenuto basilare uomo-guida sia in campo che nello spogliatoio, nella quale riapparve quattro anni più tardi nelle vesti di allenatore: una nuova avventura all’ombra del Duomo, bissata pure nel girone di ritorno della complicata stagione 1991/’92 e per poche gare dell’annata 1995/’96, nettamente meno entusiasmante rispetto però a quella vissuta da calciatore. Esigue le gioie provate in panchina, senza dubbio maggiori le giovani e ancora sconosciute promesse segnalate alla Beneamata (ad esempio, un adolescente Cristiano Ronaldo) da quando l’amico Massimo Moratti, sicuramente anche come gesto di gratitudine verso uno dei giocatori simbolo della squadra posseduta dall’adorato padre, lo nominò capo degli osservatori alcuni giorni dopo aver rilevato la società da Ernesto Pellegrini. Un atto considerato obbligatorio nei confronti di chi, esattamente mezzo secolo fa, con il suo smisurato talento e la sua preziosa saggezza ha fondamentalmente contribuito a far sbocciare una Grande Inter. La prima, e ora non più sola, Grande Inter.
Pierluigi Avanzi