Moratti: "Con l'Inter il dovere di proseguire un'attività di famiglia. Prisco mi apparecchiò l'acquisto del club"
Massimo Moratti e il suo rapporto a 360° con l'Inter nella lunga intervista concessa ai microfoni del Corriere dello Sport per la rubrica 'A tu per tu' con Walter Veltroni. L'ex patron rievoca i suoi ricordi da tifoso sotto l'egida del padre Angelo fino all'acquisto della società.
Come è cominciata la sua passione per l’Inter?
"Tutta la famiglia andava a vedere le partite dei nerazzurri. Era un amore naturale. Cominciato da mio padre, anzi, in verità, da mia madre che aveva portato papà a vedere un incontro, forse un Inter-Lazio. E Angelo Moratti, importante e serio imprenditore, da quel giorno si innamorò perdutamente di quei colori, di quella squadra. Un amore che ci ha trasmesso e che ha finito con il compenetrare la storia della nostra famiglia con quella dell’Inter. Mio padre era un uomo di straordinario dinamismo, capace di fare mille cose. Così, quando il presidente Masseroni, che era lì dagli anni della guerra, gli chiese di assumere la responsabilità della società a noi sembrò naturale che lo facesse, capace com’era di svolgere positivamente i suoi mille impegni. Così cominciò, nel 1955, la storia del lungo matrimonio tra i Moratti e l’Inter. Io ero ragazzo e tifoso. Stravedevo per Angelillo che, nel 1958-59, segnò trentatrè gol. È stato lui il mio primo idolo nerazzurro".
Non devo chiederle quale fu la gioia più importante di suo padre negli anni della sua presidenza.
"Certo, fu la vittoria della Coppa dei Campioni al Prater di Vienna nel 1964. Nei primi anni di presidenza la squadra faticò non poco. Poi la svolta venne con la decisione di ingaggiare Helenio Herrera che era stato segnalato a mio padre da un giornalista della Gazzetta. Era un personaggio fantastico, molto innovativo. Era diverso da tutti gli altri allenatori. Privilegiava la velocità su tutto. Vincemmo lo scudetto e poi, senza perdere un match nelle fasi eliminatorie, ci aggiudicammo a Vienna la coppa contro un Real Madrid stellare, quello di Di Stefano, Puskas, Gento. Fu come un passaggio di consegne. Con l’Inter stava nascendo un nuovo calcio. Mio padre era commosso, era il risultato di tanto lavoro e di tanto amore. Il pianto di gioia dei tifosi era il coronamento di un sogno, un faticoso e bellissimo sogno".
E non devo chiederle neanche il momento più triste, che credo debba collocarsi, geograficamente, tra Lisbona, dove l’Inter perse la finale di Coppa dei Campioni con il Celtic e Mantova, nel 1967.
"È così. A Mantova perdemmo lo scudetto all’ultima giornata con un infortunio del portiere Sarti su un tiro facile facile di Di Giacomo, tra l’altro ex interista. Fu una situazione stranissima. Sbagliammo gol facili e decisioni arbitrali, come spesso è accaduto, ci furono contrarie. Era una settimana dopo la sconfitta con gli scozzesi. Furono due mazzate, inaspettate. Mio padre decise in quei giorni di passare la mano e chiese a Fraizzoli di assumere la guida della squadra".
Passano un po’ meno di trent’anni e lei rileva l’Inter e ne assume la presidenza…
"La squadra e la società erano in un momento difficile. Veniva voglia a un tifoso appassionato di dare una mano. Cosa sogna un qualsiasi malato di calcio? Di comprare questo o quel giocatore, di scegliere questo o quell’allenatore… Sogna di rilanciare la sua squadra. In quei giorni incontrai per strada l’avvocato Prisco che mi chiese perché non dessi una mano all’Inter. Ebbi il torto di non rispondere subito di no e in pochi giorni quel turbine d’uomo mi apparecchiò l’acquisto della società. Il problema mi sembrò, subito, non tanto l’essere diventato proprietario dell’Inter quanto trovare le parole giuste per spiegare questa scelta ai familiari. Ma tutto, in fondo, sembrò naturale. Mi sembrava di tornare a casa, di proseguire un’attività di famiglia. Ne sentivo la responsabilità, quasi il dovere".