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Oggi, 19 anni fa: Moratti proprietario di un sogno

di Redazione FcInterNews

Diciotto anni e nove mesi da proprietario unico di un sogno. Ufficialmente terminati lo scorso 15 novembre con la sofferta cessione del 70% delle quote societarie, per una cifra pari a 250 milioni di euro comprensiva del ripianamento dei debiti, a un trio (che presto potrebbe tuttavia diventare un duo) di uomini d’affari indonesiani capeggiato dal nuovo presidente nerazzurro Erick Thohir. Un sogno cominciato il 18 febbraio 1995 con un puro gesto di amore e coraggio, il primo di una lunghissima serie, che oggi pare però stridere moltissimo se raffrontato alla bramosa voglia di “aumentare il business” da novanta giorni a questa parte incessantemente predicata da Thohir come obiettivo principe.

La storia di Massimo Moratti presidente dell’Inter inizia esattamente diciannove anni fa, in un pomeridiano sabato in cui il fantasma della zona retrocessione è distante soltanto una manciata di punti e il Biscione non è certo un gingillo col quale sollazzarsi a vincere: è anzi un complicato, costoso e blasonato intreccio di sentimenti, con le casse sempre più vuote e un parco giocatori, ad eccezione di pochissimi, tutt’altro che di ottimo livello. Un intreccio di sentimenti avente gli occhi sbigottiti, malinconici ed esasperati dei propri tifosi, inquietamente in attesa di tricolore dal prodigioso trionfo-record 1989 e fastidiosamente intossicati dalle continue conquiste dei rivali cittadini rossoneri targate Silvio Berlusconi. Con circa settanta miliardi di lire versate nelle tasche di Ernesto Pellegrini e per merito dell’importante “intercessione” dell’avvocato Peppino Prisco, Massimo nell’inverno 1995 poté dunque riannodare i fili di una luminosa e romantica utopia presente nel suo animo chiamata F.C. Internazionale, la squadra che l’adorato papà Angelo acquistò nel 1955 e nelle tredici stagioni di sua reggenza rese eternamente “Grande” grazie pure al conseguimento di tre scudetti, due coppe Campioni e due Intercontinentali.

Moratti, ossia il marchio della famiglia che meglio ha identificato le prime 106 primavere della saga della Beneamata: un cognome sinonimo di signorilità – a volte addirittura eccessiva – nei comportamenti, tenace passione per i colori nerazzurri, genuina trasparenza nel modo di fare e di essere, orgogliosa dignità nel non voler chinare la testa davanti alle ingiustizie anche più palesi, limpida integrità morale e generosità, nel vero senso della parola, senza confini. A quest’ultimo riguardo, gli Inter Campus creati con la colta e impegnatissima consorte Milly sono infatti solo uno dei molteplici e splendidi esempi: porsi lo scopo d’aiutare tantissimi bambini, abitanti le aree maggiormente disagiate del mondo, semplicemente offrendo loro il diritto all’infanzia.

Definire Massimo Moratti il miglior patron, assieme al padre, dell’epopea interista potrebbe sembrare banale, ma in ogni caso veritiero: a parlare sono i numeri, da sempre scienza calcistica incontestabile scolpita da statistiche e albo d’oro. Numeri che lo raccontano come il presidente più longevo – oltre diciotto anni cui solo formalmente sottrarre i due durante i quali, pur mantenendone l’assoluto comando, nel 2004 decise di cedere la presidenza della società al fraterno amico e collaboratore Giacinto Facchetti – ed al contempo più vincente: sedici trofei andati a riempire smisuratamente di gioia, estasi e fierezza il cuore della gente “bauscia”, la stessa che a furor di popolo nel febbraio 1995 si affidava fiduciosamente ad un moderno Moratti con la vivida speranza di poter vedere il Biscione tornare all’altezza della sua gloriosa storia e rimuovere parallelamente la molesta ombra del Milan berlusconiano (negli ultimi diciannove anni incapace, per somma di titoli messi in bacheca, di reggere il passo della compagine morattiana). Missione ampiamente compiuta, certificata dalla conquista di cinque scudetti consecutivi, quattro coppe Italia, quattro Supercoppe italiane, una coppa Uefa (il primo alloro, conseguito contro la Lazio in una suggestiva serata parigina del 1998), un Mondiale per Club e quella Champions League agognata da quasi mezzo secolo dai sostenitori nerazzurri, dall’ammaliante notte del 22 maggio 2010 portatori sani di quantità maggiori di sereno ed istintivo affetto insediatesi al posto delle accumulate scorte di atavica e feroce ansia.

Una vetta d’Europa, raggiunta nella leggendaria stagione dove la formazione guidata dal tecnico portoghese Josè Mourinho divenne la sola italiana capace di centrare un epico “Triplete” ancora adesso fonte di mal di stomaco altrui, attestante il fragoroso ritorno di una nuova “Grande Inter” come soltanto un secondo Moratti poteva rendere possibile: un uomo in grado di realizzare ciò grazie ad intuizioni sovente efficaci e a notevoli e ricorrenti slanci finanziari, utili ad esempio a colmare ripetutamente di visibilio gli occhi dei tifosi (dal munifico petroliere nato nel 1945 nella veronese Bosco Chiesanuova spesso descritti, in maniera sinceramente grata, alla stregua dei “veri proprietari del club”) con le inebrianti giocate dei molti fuoriclasse – da Ronaldo a Samuel Eto’o, solo per citarne un paio e limitarsi a chi sgambetta sul rettangolo verde – condotti a vestire la maglia della Beneamata nei recenti due decenni.

Elettrizzanti vittorie, sfavillanti campioni, ma anche faticosi periodi bui, specialmente nei primi dieci anni di presidenza, conditi dall’ottenimento della sola coppa Uefa e da alcuni errori di gestione (tipo i frequenti, e talvolta inopportuni, avvicendamenti di allenatore) tuttavia operati con la costante intenzione di voler unicamente il bene del team meneghino: anni in cui sul figlio di Angelo, accomunato al padre altresì per la cronica allergia ai “giochi di potere” in seno a Lega e FIGC, iniziarono sempre più a brulicare saccenti sarcasmi riguardo all’irrimediabile inabilità a vincere a dispetto dei tanti denari spesi in atleti e mister di alta caratura. Smargiasse ironie spazzate però via di colpo, nella per certi versi nauseante estate 2006, una volta emesse dalla giustizia sportiva le assai chiare e nette sentenze relative a “Calciopoli”, l’ignobile scandalo narrante di stagioni assolutamente prive di battaglie ad armi pari dove la società nerazzurra, mancata trionfatrice d’un soffio sia nel 1997/’98 che nel 2001/’02 di campionati pesantemente macchiati da incessanti e clamorosi strafalcioni delle giacchette nere, dovette inconsapevolmente combattere contro squadre i cui torbidi dirigenti, per fare in modo di poter pilotare a loro piacimento i destini della Serie A, controllavano capillarmente designatori arbitrali, arbitri, dirigenti federali, procuratori, giornalisti, moviolisti e addirittura vertici di altri club.

Un conto era supporre, un conto era sapere: l’asprissima ratifica della reiterata truffa subita ai propri danni, della quale prima del 2006 si riusciva esclusivamente a percepire l’odore, lasciò ferite lancinanti all’interno di Moratti – e così in tutti i supporter, pur se mitigate dall’evidente orgoglio nel vedere il Biscione pienamente estraneo al tanto marcio saltato fuori – ma non lo fece affatto mollare. Impossibile abbandonare il timone allora, senza aver vinto quei trofei che gli onnipresenti tifosi attendevano da tempo. Impossibile da abbandonare totalmente ancora oggi, come testimonia il 29,5% di quote attualmente in suo possesso e la carica di vicepresidente mantenuta dal secondogenito Angelomario, malgrado l’amarezza per gli assurdi striscioni di malcelata perfidia mostratigli dalla Curva Nord nella gara col Sassuolo e precedentemente in occasione della sua ultima partita da proprietario. Da proprietario unico, ma non da unico proprietario, di un sogno. Un sogno intrapreso esattamente diciannove anni fa con un amorevole gesto di coraggio e terminato, nella speranza che il 70% ceduto al trio indonesiano possa permetter di potere economicamente tornare al passo delle maggiori compagini del Continente, col coraggio dei propri amorevoli gesti.

Quelli di un presidente vincente, spontaneo, appassionato, generoso e nerazzurro nell’anima, ma innanzitutto cristallino e perbene come, nel solco della tradizione, merita ed insegna la saga dell’Inter. Quelli di un presidente cui si dovrebbe dire soltanto grazie, ma che purtroppo dalla scorsa estate in parecchi (non solo la storicamente maldisposta nei suoi confronti Curva Nord) sull’onda dei prematuri peana pro Thohir paiono esserselo velenosamente dimenticato.

PIERLUIGI AVANZI


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