Ramon Diaz, il tango meglio della rumba
Nell’ultracentenaria storia dell’Inter ci sono stati giocatori che, pur da strapagate e presuntuose stelle ritenute in grado di vincere i match da sole, in sei stagioni con indosso la gloriosa casacca della Beneamata hanno racimolato la miseria di una coppa Italia. Acclamatissimi atleti miliardari con in dote splendide donne e muscoli di cristallo costretti poi a rimirare la stessa compagine nerazzurra, una volta abbandonatala, andare alla prodigiosa conquista di ben quattordici trofei – tra cui cinque tricolori, una Champions League e un Mondiale per club – nelle sei stagioni immediatamente successive alla loro dipartita: roba da farsi venir la depressione, prontamente magari combattuta a colpi di dopolavoristiche rumbe e volgari retweet carichi d’invidia. Nella medesima storia dell’Inter, tuttavia, ci sono state anche situazioni di calciatori fermatisi all’ombra del Duomo per un’annata appena, ma capaci di lasciare un ottimo ricordo nel cuore dei tifosi ed al contempo di legare il proprio nome a uno strepitoso scudetto-record perennemente rimasto ineguagliato per ciò che riguarda i campionati italiani a diciotto squadre: un titolo, ottenuto in scioltezza all’enorme quota di 58 punti quando ancora una vittoria ne valeva soltanto due, arrivato pure per merito delle preziose prestazioni di un umile e guizzante attaccante argentino chiamato Ramon Angel Diaz, piccolo puntero (1,71 metri per 67chilogrammi) nato nel 1959 a La Rioja, aspetto triste e orgoglioso come il tango della sua terra, faccia da indio e anima da gaucho, rapinatore d’area dal sinistro preciso e perentorio perfettamente compatibile con il longilineo e “fisicato” compagno di reparto, nonché capocannoniere della Serie A con ventidue reti in quel fantastico torneo 1988/’89, Aldo Serena.
Un acquisto generato quasi per caso, quello di Diaz, scopertosi però tremendamente decisivo per le sorti della formazione saggiamente allenata da Giovanni Trapattoni: nell’estate 1988 il presidente Ernesto Pellegrini si era infatti assicurato il centravanti algerino Rabah Madjer, soprannominato “Tacco di Allah” per lo spettacolare gol che valse il pareggio nella finale di coppa Campioni 1987 vinta 2-1 dal Porto del bomber nordafricano sul Bayern Monaco, ma proprio poche ore prima di partire per il ritiro i medici nerazzurri riscontrarono un grave problema muscolare alla coscia dell’attaccante islamico, obbligando quindi il Biscione a non poter ratificare il contratto e a ricercare in fretta un rimpiazzo all’altezza di Madjer che potesse andare a completare un già sontuoso mercato annoverante calciatori affermati del calibro dei tedeschi Andreas Brehme e Lothar Matthaeus e ambitissimi giovani di talento come gli emiliano-romagnoli Alessandro Bianchi e Nicola Berti. Il sostituto venne appunto individuato nel rapido stoccatore albiceleste dai lineamenti malinconici – prelevato con la formula del prestito alla fine di un discreto biennio disputato con la Fiorentina, società alla quale Ramon era giunto in seguito alle esperienze nel River Plate di cui in futuro sarebbe stato pluridecorato tecnico, nel Napoli e nell’Avellino – che nel dipanarsi del torneo si rivelerà fondamentale pedina capace di un raro lavoro tattico volto a favorire il letale inserimento in avanti dei centrocampisti e le reti a grappoli del più prolifico Serena di sempre: un Diaz in grado di ritagliarsi la propria fetta di scudetto grazie pure ad apprezzati assist e a dodici importanti segnature nel corso di un campionato che allora era effettivamente il più bello e difficile del mondo, quello dove da circa un lustro vi giocavano praticamente tutti i maggiori fuoriclasse in attività, e che lo sarebbe stato per almeno un decennio ancora. Tant’è vero che, a cominciare dalla stagione 1988/’89 (quella che vedeva una sensazionale Inter impadronirsi del tricolore, nove anni dopo il precedente, ai danni di grossi team tipo il Napoli di Maradona e Careca, il Milan del trio olandese Rijkaard-Van Basten-Gullit, la Sampdoria di Vialli e Mancini) sino ad arrivare alla 1998/’99 (l’ultima nella quale si gareggiò anche per la Coppa delle Coppe), ben quindici dei trentatré trofei messi in palio nelle tre massime manifestazioni europee per club se li aggiudicarono squadre dello Stivale: quasi il cinquanta percento, una cifra mostruosa.
Una duratura tirannia italiana sul Continente, cui la Beneamata contribuì conquistando tre coppe Uefa, iniziata quando il calcio era ancora una luminosa arte romantica dove Sky era soltanto la traduzione inglese della parola “cielo”, dove le partite di campionato si disputavano tutte in contemporanea la domenica pomeriggio e non barbaramente a qualunque ora di un qualsiasi giorno, dove per vedere in televisione i primi gol di giornata si doveva attendere trepidanti “Novantesimo Minuto” al termine di un palpitante paio d’ore trascorse con l’orecchio incollato alla radio o alle pionieristiche tv locali, dove ogni singola società poteva tesserare sino ad un massimo di tre stranieri: avendo il club meneghino già preventivamente acquistato l’acrobatico centravanti teutonico Jurgen Klinsmann, dunque, fu solo per quest’ultimo motivo che il timido e pregevole puntero Ramon Diaz non venne riscattato alla fine della trionfalistica stagione 1988/’89. Una scelta probabilmente affrettata, che andò parzialmente ad ingolfare i precisi meccanismi di una squadra che aveva fatto innamorare e polverizzato primati: relativamente all’undici titolare, di sicuro una delle formazioni nerazzurre più vigorose ed entusiasmanti della storia. Una compagine capace di garantirsi lo scudetto numero tredici – sul finire di un rivoluzionario decennio che al popolo del Biscione aveva regalato anche la gioia del dodicesimo tricolore, in aggiunta al sollazzo per le due retrocessioni in Serie B patite dai dirimpettai rivali rossoneri – grazie all’insito agonismo tritatutto, graniticamente imperniata su tre quinti della retroguardia della Nazionale azzurra semifinalista all’Europeo ‘88 (Walter Zenga in porta, Riccardo Ferri e capitan Beppe Bergomi in marcatura) e sapientemente plasmata sul perfetto ordito tattico disegnato da Trapattoni: una sorta di dinamico e avanguardistico 3-5-2 cucito su misura per le caratteristiche dei giocatori a disposizione, tipo quello che pare avere in mente mister Walter Mazzarri per l’imminente Inter del futuro. “Ché quando smetti di sperare inizi un po’ a morire” canterebbe il grande Luciano Ligabue, sanguigno maestro di nostrano rock e non certo di rumba.
Pierluigi Avanzi