E alla fine, si ricomincia. In barba alle contestazioni dei tifosi, soprattutto quelli organizzati, che non ne vogliono sapere di vedere ricominciare lo spettacolo dopo gli ultimi, tremendi mesi vissuti dal nostro Paese, e con la prospettiva di non poter assistere al match dal vivo almeno in grandi numeri e senza alternanze di posto, come era consuetudine fino a non molto tempo fa, per diverso tempo, si ricomincia. Nonostante ancora qualcuno degli addetti ai lavori storca il naso perché il dramma Covid-19 ha lasciato il suo segno anche nel mondo del calcio e ancora oggi non sia scongiurata l’ipotesi di non riuscire a completare la regular season così come è stata disegnata l’estate scorsa, con conseguente corollario di piani B, C, playoff, algoritmi e alchimie varie, si ricomincia. E si ricomincia perché ormai tutti o quasi i principali campionati europei hanno deciso già così, perché la Germania si è messa già in moto da un pezzo, la Spagna sta per farlo e l’Inghilterra pure, e chi solo qualche settimana fa applaudiva alla decisione del governo di fermare la Ligue 1 ora si mangia tutte le braccia e si autodefinisce con un termine che tradurre con ‘stupidi’ è eufemismo di alto lignaggio.

La Serie A deve ripartire, perché lo può fare in sicurezza e perché deve servire da sostegno ad un intero Paese e alla sua voglia di ricominciare a vivere, anche se non sarà ancora lo stesso vivere di prima. E pazienza se i calciatori ancora mugugnano perché ci sono partite previste ad un orario che in piena estate è ritenuto ‘impraticabile’; anche perché, se in Spagna si fidano delle previsioni del tempo e piazzano la sfida tra Athletic Bilbao e Atletico Madrid alle 13 di domenica 14 giugno perché nella località basca è previsto un clima fresco, da noi ci si premura prontamente ad evitare che a quell’ora si giochi nelle località più a Sud, ovvero Napoli, Cagliari e Lecce. Come se il luglio di Milano, dove tanto per fare un esempio è previsto per quell’orario il match tra Inter e Bologna, fosse notoriamente contraddistinto da temperature gradevoli e fresche e piacevoli correnti di montagna.

Si deve ripartire, per cercare di chiudere quanto prima, anche se non si sa quando ricomincerà la Coppa Italia che nelle intenzioni rappresenta la cerimonia di riapertura della stagione; anche se prima di vedere il nuovo calendario abbiamo assistito ad un’ultima gincana, con la definizione delle partite che doveva avvenire nel pomeriggio di lunedì, poi mercoledì, poi inversione a U e presentazione nella serata di lunedì. E soprattutto, anche se ancora tante, troppe questioni anche impellenti rimangono pericolosamente sospese e il clima tra i club sia di altissima tensione, dove se non volano gli stracci volano magari i pezzi di carta stampata pubblicati tanto per provare a destabilizzare il fronte a te nemico, al fine di scaldare un po’ la poltrona occupata da qualcuno che non vuoi sia lì, strategia che sa più che altro di grigia e puerile ripicca.

Si ricomincia, anche se non è ancora certo che questa barca piena di falle possa resistere in acque così agitate fino al 2 agosto, giornata deputata per la fatidica chiusura delle ostilità prima di una brevissima sosta, che per alcuni sosta non sarà mai perché il 12 settembre è previsto il via di un nuovo campionato ancora più ricco di incognite e di stress visto che poi si dovrà arrivare all’Europeo e, per alcuni, anche ai Giochi Olimpici di Tokyo. Ma ora, c’è una rotta ben delineata. E allora, proviamo a studiarla questa rotta: una rotta che vedrà l’Inter prendere il mare delle partite quasi sempre nell’orario inedito delle 21.45, con conseguenti problematiche legate alla gestione delle gare, orari di chiusura lavori che facilmente si protrarranno oltre la mezzanotte con tutte le difficoltà logistiche e burocratiche del caso, che coinvolgeranno anche i vari addetti ai lavori.

Si dovrà nella sostanza tenere un ritmo infernale fatto di partite ogni 72 ore, oltretutto con le ultime due sfide di campionato delle quali ancora vanno definiti l’orario e soprattutto l’importanza della posta in palio. E considerando la Coppa Italia, il recupero con la Sampdoria e la prospettiva di chiudere il campionato e iniziare subito con le sfide dentro o fuori dell’Europa League, allora ecco che la situazione diventa particolarmente pesante da digerire per il tecnico nerazzurro Antonio Conte, che giocoforza dovrà lavorare molto sull’aspetto psicologico oltre che atletico dei suoi uomini, andando oltre il rischio di infortuni e della mancanza di alternative numericamente sufficienti per reggere questo urto violento, problema che accomuna un po’ tutti i tecnici. Ma considerato il carico delle partite superiori al resto del plotone, indubbiamente l’impiccio per Conte non è di poco conto, considerando che ormai i valori precedenti possono dirsi definitivamente andati in corto circuito, si ricomincerà in un ben altro contesto e rischia di passare un attimo tra la prospettiva di un clamoroso rientro nella corsa Scudetto e magari di un successo in una delle due coppe a quella di una stagione dove tutti gli obiettivi finiscono a carte quarantotto.

Mentre dentro i centri sportivi si ragiona, fuori si celebra questa ripartenza, alcuni senza celare il proprio entusiasmo. C’è chi è arrivato a scomodare una frase scolpita nella memoria calcistica nazionale per definire questo nuovo capitolo del campionato: sarà la Serie A delle ‘notti magiche’, come quelle del Mondiale di Italia ’90, quelle cantate da Edoardo Bennato e Gianna Nannini nell’evocativo inno ufficiale, che ebbe anche una versione inglese sulla qualemeglio sorvolare. A distanza di trent’anni da quell’evento che rappresentò in quel momento l’apogeo della potenza calcistica italiana, l’estate nazionale tornerà a vivere di un grande avvenimento calcistico, si dice. Ma a pensarci bene, tanti sono i motivi che indurrebbero a fuggire via da questo paragone.  

In primo luogo, non può reggere assolutamente il confronto con un Mondiale, tema usato anche come alibi per giustificare la disputa delle partite nel pomeriggio perché, in Usa, Russia, Brasile che dir si voglia si è giocato anche a orari più caldi con temperature impossibili. Vero, c’è chi fa altri mestieri dovendo sopportare condizioni climatiche, e non solo, infernali; però è anche vero, rimanendo nell’ambito calcistico, il Mondiale vive di ben altri riti, soprattutto di ben altri ritmi; le Nazionali hanno comunque un determinato numero di giorni di pausa tra una partita e l’altra, e soprattutto lo sforzo è distribuito su meno di dieci partite, mentre qui c’è anche il rischio di arrivare, coppe comprese, anche a sfiorare le venti gare in un periodo ridotto.

Chi è abbastanza grande da aver vissuto quelle sere, poi, ricorderà benissimo che quelle, alla fine, furono tutt’altro che notti magiche. Quella Nazionale guidata da Azeglio Vicini che ha fatto sognare una nazione intera, malgrado nemmeno quel gruppo azzurro fu immune da polemiche di vario genere, finì la propria avventura con un amaro terzo posto figlio della serata di Napoli, della funesta semifinale con l’Argentina di Diego Armando Maradona e di Sergio Javier Goycochea, portiere che iniziò come riserva di Nery Pumpido e causa infortunio di quest’ultimo divenne la ‘one hit wonder’ più clamorosa di quell’anno, grazie alle sue prodezze nelle lotterie dei rigori con la Jugoslavia prima e con l’Italia poi. A volerla guardare oggi, con distacco e un po’ di cinismo, si può anche dire che la mancata vittoria del Mondiale può anche avere avuto risvolti positivi: chissà, magari qualcuno, in caso di successo, in nome del ‘Siamo campioni, volemose bene’, poteva decidere di chiudere tutti e due gli occhi sulle storture che caratterizzarono l’organizzazione del torneo e che poi (forse non tutte) sono venute alla luce.

L’unico termine di paragone plausibile può essere quello legato agli stadi, ma in negativo: Italia ’90 fu la grande occasione persa per avere prima di chiunque altro impianti di nuova generazione. Invece, in quegli anni si puntò sulla ristrutturazione degli impianti già esistenti e già vetusti, con risultati quasi sempre censurabili, e con gli unici due impianti costruiti ex novo realizzati secondo criteri cervellotici. A distanza di trent’anni, la situazione è pressoché immutata per non dire peggiorata: la Juventus con l’Allianz Stadium ha avuto il merito di cancellare l’orrore Delle Alpi, l’Udinese ha rinnovato profondamente il Friuli, ma per il resto il piatto piange. E i tanti, troppi progetti presentati in questi ultimi anni, compreso quello del nuovo San Siro, continuano a navigare tra altissime onde di parole e venti burrascosi di burocrazia. E beandoci di avere questo campionato estivo e paragonarlo a un Mondiale non si fa il gioco di un Paese che dovrebbe tornare ad ospitare eventi internazionali veri, di rilievo, da accogliere in stadi degni di tale nome e di questo momento storico.

Infine, quell’Italia ’90 arrivava al termine di una stagione nella quale le italiane dominarono la scena in ambito internazionale, conquistando tutte e tre le coppe europee con Milan, Sampdoria e Juventus che nella finale di Coppa Uefa batté la Fiorentina. Adesso, invece, arriviamo da dieci anni senza acuti in Europa, dove solo qualche giorno fa l’Inter celebrava la conquista del Triplete, ultimo squillo italiano prima del deserto. La competitività a livello internazionale si è decisamente abbassata, nonostante qualche segnale di risveglio; ma meglio non bearsi di questo orticello così malconcio specie se consideriamo che una volta sembrava l’orto delle meraviglie.

Italia ’90 è stata l’ultima estate dove gli italiani, in qualche modo, hanno potuto sognare, sulle ali di un ragazzo dagli occhi grandi e dal fiuto del gol innato che prima ancora di un’intera nazione fece gioire una città che, compreso un piccolissimo me, ebbe modo di goderselo mentre furoreggiava sul campo del Giovanni Celeste trascinando il Messina di Franco Scoglio prima e Zdenek Zeman poi; quel ragazzo si chiamava Salvatore Schillaci, che rimase nell’immaginario collettivo anche per quella sua espressione di stupore, per quegli occhi sgranati quando voleva mostrare disappunto. Il rischio è che quegli occhi possano essere anche quelli di Antonio Conte nel mostrare altrettanto disappunto per una stagione i cui destini sono tutti da definire, e che rischia di rivelarsi brutta come, con tutto il rispetto, oggettivamente brutta era la mascotte di quel torneo, un burattino tricolore con una testa a forma di pallone che imperversava ovunque in quel periodo ma più si vedeva in giro e meno convinceva.

Come si chiamava quella mascotte? Ah sì, Ciao. Quel ciao che Conte non vuole dire ad una stagione, la sua prima interista il cui anniversario è arrivato qualche giorno fa, che sembrava avviata su altre prospettive ma da dove, nonostante tutto, ambisce a strappare qualche risultato. Ecco, questo sì che sarebbe magico.

Sezione: Editoriale / Data: Mer 03 giugno 2020 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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