C'era una volta a Torino un allenatore di nome Antonio Conte, che allenava una Juve senza Europa. Correva l'anno 2011 e i bianconeri post-Calciopoli a livello di campo erano lontani dall'essere iscritti al partito dei favoriti. Sul trono della Serie A sedeva il Milan di Massimiliano Allegri e di Zlatan Ibrahimovic, destinato alla gloria tricolore per il secondo anno consecutivo. La storia andò diversamente celebrando il leccese rampante, mai sconfitto in campionato in trentotto partite che lo proiettarono per sempre tra i tecnici taumaturghi.
La leggenda di Conte è stata tramandata negli anni, più o meno sempre uguale a se stessa: trionfi da record in casa e ritirate strategiche nel vecchio continente. Due realtà sempre parallele che finora non hanno mai avuto un punto di contatto: neanche sulla panchina dell'Italia, quando nel campionato europeo francese del 2016 – alla guida di una Nazionale col minor tasso tecnico della storia del Gioco – la consacrazione internazionale gli sfuggì di mano contro la Germania per due calci di rigore inopinati. I luoghi comuni si alimentano così, con gli albi d'oro e i risultati che vanno sempre oltre il merito e il demerito. A tal punto che il valore di una Premier League vinta al primo colpo, alla guida di un Chelsea l'anno precedente decimo e - guarda caso senza Coppe – non è riuscita a togliere dalla schiena di King Antonio l'etichetta dell'eroe unicamente nazionale. Vero è che il leccese, finora, si è dimostrato più un manager da corsa a tappe che non da grandi classiche, ma sparare sentenze a questo punto della sua carriera è comunque un esercizio frettoloso. In tal senso, forse, sarebbe corretto istituire la scala di valore per i vari trionfi: un alloro in terra inglese, ad esempio, negli anni in cui il torneo assomigliava a un a torneo del mondo degli allenatori vale molto meno di una Champions League?
Difficile dare una risposta oggettivamente accettabile, anche perché i percorsi compiuti dai vari tecnici sono tutti diversi: Carlo Ancelotti e José Mourinho, unanimemente considerati due guru del mestiere anche se per ragioni diametralmente opposte, hanno fondato i loro curriculum costellati di successi cominciando a prendere per le orecchie la Coppa più importante di tutti a livello di club. Un passepartout per diventare degli eletti che recentemente ha avuto tra le mani anche Klopp, solo qualche giorno prima definito come loser per non essere riuscito a strappare lo scettro d'Inghilterra per un punto al Manchester City (totalizzando 97 punti). A Conte manca ancora questo passaggio per entrare definitivamente nella storia, anche perché, in passato, a costo di evitare di non essere gradito nei party più chic d'Europa, ha deciso di alzarsi dal tavolo perché "non si può mangiare con 10 euro in un ristorante da 100 euro". Nel 2014, di fatto, Conte abbandonò "la parte dei forti" in cui ora si trova Maurizio Sarri, il cui unico vanto - Sarrismo a parte - è l'aver vinto una Europa League a Londra, paradosso per uno che aveva snobbato la Champions per assurgere al ruolo di Maradona del nuovo millennio a Napoli. Una responsabilità che Conte ha sempre rifiutato o si è visto rifiutare. Per Dna, Antonio ha sempre scelto di misurarsi con sfide ai limiti dell'impossibile, guidando underdog di lusso (per storia, tradizione e parco giocatori) che studiano per diventare superpotenze: "Ai sapientoni dico che ho sempre lavorato con creature appena nate, non così solide", ha spiegato nella conferenza pre-partita con lo Slavia Praga.
Puntualizzazione oggettiva, che alcuni hanno inquadrato come maniavantismo: il nocciolo della questione è tutto lì, anche per analizzare il pericoloso 1-1 in rimonta agguantato dall'Inter martedì sera contro i cechi, quarta forza sulla carta di un girone che include Barcellona e Borussia Dortmund. Il primo mezzo passo falso è arrivato dopo la celebre musichetta, non a caso, a interrompere il filotto di tre vittorie in campionato che comunque avevano fatto intravedere che i problemi erano tutt'altro che risolti. Rinforzando il concetto di un Conte sciamano solo prima del confine e coprendo erroneamente i limiti di una squadra che ha mostrato i soliti difetti di personalità in Champions (settima volta in svantaggio nelle ultime sette gare). "Io mi prendo la responsabilità di tutto perché il gruppo deve avere il tempo di crescere. Non ho inciso come avrei dovuto incidere prima e durante la partita. E forse anche durante la preparazione, anche se abbiamo avuto poco tempo”, ha detto Conte in versione parafulmine dopo la gara di San Siro.
Un racconto dei fatti volto a proteggere la stabilità dello spogliatoio, che comunque è arrivato dopo diverse bacchettate ai suoi soldati e un rosario di mea culpa. E mentre Conte si batteva il petto in segno di pentimento per non aver messo il marchio contiano sulla sua nuova creazione, Sarri disinnescava la polemica a distanza con il collega, nata proprio da quel 'qualcuno stia tranquillo' pronunciato nella sala conferenze della Scala del Calcio. Nient'altro che una guerra verbale tra due allenatori in cerca della consacrazione definitiva. C'era una volta a Torino Antonio Conte, oggi c'è Maurizio Sarri, l'allenatore che Conte non è mai stato o voluto essere.
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Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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