Aiuto, è sparita l’Inter! Soccorso, questo è un campanello d’allarme fortissimo! Accorr’uomo, la situazione sta sfuggendo di mano ad Antonio Conte! Si salvi chi può, è arrivato il segnale che la stagione può dirsi conclusa, che non c’è più niente da fare ed è stato bello sognare e che lo Scudetto si giocherà inevitabilmente lungo l’asse Roma-Torino.
Ecco… A sentire molti commenti delle ore successive alla partita dell’Olimpico contro la Lazio, coincisa con la seconda, badate bene, seconda sconfitta in campionato dell’Inter di Antonio Conte, un alieno sbarcato sulla Terra e intento a capire cosa stesse succedendo di nuovo in questo ambiente a lui ignoto avrebbe pensato all’imminente abbattimento di un’apocalisse su tutto il globo, con epicentro in particolare da Appiano Gentile. Ma poi, una volta smaltita la rabbia per questo ko che comunque relega l’Inter alla posizione più bassa mai occupata probabilmente in questa stagione, terza a -3 dalla vetta (un dramma vero, se però dimentichiamo che parliamo di una squadra che negli ultimi anni a febbraio era abituata ad occupare abissi decisamente più profondi), a mente fredda ci si accorge che forse la realtà è leggermente, ma proprio leggermente diversa da come è stata raccontata.
Quella che dopo la strepitosa rimonta nel derby contro il Milan sembrava davvero l’unica, seria candidata a contendere, se non a spodestare, il trono di campione d’Italia sotto il quale ormai la Juventus ha fatto le radici, nel giro di una settimana viene ora dipinta come una squadra in disarmo, soverchiata da una Lazio che arrivava a questa sfida forte di una striscia positiva di diciotto partite, nata dopo la sconfitta proprio contro i nerazzurri nella gara di andata, e che in nome dello sfrenato culto del risultatismo che pare permeare la stessa società civile prima ancora che l’opinione pubblica calcistica, avendo battuto l’Inter nello scontro diretto per il secondo posto si prende di diritto tutti i galloni di seconda forza del campionato relegando inevitabilmente i nerazzurri a semplice comprimaria per la quale ogni speranza pare ormai andata. Eppure, eppure…
C’è chi si spinge a parlare di una Lazio dominatrice dell’incontro ma a vedere i dati si legge che alla fine le conclusioni in porta sono state tre a testa; ma anche solo a ripensare all’andamento della gara, tutti sono stati più o meno concordi nel parlare di partita a scacchi, preparata benissimo da ambedue gli allenatori, dove la Lazio ha agito più a ondate ma dove gli spunti da parte avversaria non sono di certo mancati. Anche dopo che i biancocelesti sono riusciti a ribaltare il risultato, l’Inter ha comunque avuto qualche opportunità per tornare a fare male a Tomas Strakosha, e la sola vera grande occasione per chiudere i conti, quel tiro in uno-contro-uno di Ciro Immobile sul quale Daniele Padelli ha trovato quella deviazione miracolosa che gli ha permesso di mettere una piccola pezza alle seppur enormi toppe precedenti, è arrivato solo nei minuti finali di partita.
Si dice in generale di una difesa in difficoltà, di Diego Godin e di Milan Skriniar che mostrano ancora qualche segnale di fatica nell’aderire ai principi di difesa a tre, ma se è vero come è vero che anche domenica Stefan de Vrij ha fatto forse capire che Luciano Spalletti, forse, ne aveva intuito un po’ l’emotività più di tutti (del resto l’olandese ci aveva abituato a pensare a lui come un robot viste le prestazioni offerte sin qui), in generale la linea difensiva nerazzurra rimane una di quelle che reggono meglio in tutto il campionato e sta inevitabilmente perdendo un po’ di lucidità anche per l’impegno a tratti necessariamente prolungato. E se poi proprio vogliamo andare a cercare il proverbiale pelo nell’uovo, se non fosse stato per alcune decisioni risultate poi abbastanza opinabili da parte dell’arbitro Gianluca Rocchi, allora forse staremmo a parlare di qualcosa di decisamente diverso. Ma tant’è…
Ma allora, se è tutto così bello, così idilliaco, il sole splende e gli unicorni volano spensierati nel cielo, allora perché a Roma l’Inter è uscita dallo stadio con le pive nel sacco? Le risposte possono essere tante, ma anche qui, a volerla dire tutta, nulla che non si sappia o che non sia magari stato anche accennato da Antonio Conte. L’Inter nella fattispecie ha pagato le incertezze del proprio secondo portiere, alle quali vanno però aggiunte, forse anche ponderate come aggravante, le insicurezze nei suoi confronti palesate dai compagni di reparto culminate nella grottesca situazione che porta al rigore del pareggio laziale; più in generale, paga ancora il fatto di non potersi permettere di far calare i giri del motore, di non poter abbassare di un chilometro il tachimetro dei 200 km/h per evitare effetti in stile ‘Speed’. Paga ancora pesantemente dazio quando magari gioca bene un tempo poi nell’altro finisce con il tirare i remi in barca, cosa che magari non si è vista del tutto a Roma ma in maniera netta in altre occasioni specie europee; e a detta di tanti, paga fin troppo quello che sin qui però è stato il punto di forza di tutta questa prima stagione contiana, vale a dire la persistenza sul modulo 3-5-2.
Non avrebbe dovuto essere poi un problema, perché tutti sapevano sin dal momento in cui Conte arrivava col taxi sotto la sede nerazzurra che quello sarebbe stato il mantra di tutta la sua gestione, e che comunque ha prodotto risultati tanto da far esclamare allo stesso mister: “Ma si potrebbe mai cambiare una cosa che funziona?”. Ma che ormai sta diventando forzatamente un problema specie da quando è arrivato alla corte nerazzurra Christian Eriksen: il grande colpo dell’inverno del mercato italiano, l’uomo giusto per il definitivo salto di qualità, sta trovando difficoltà a ritagliarsi il suo spazio finendo sempre impiegato a partita in corso con spazi ridotti per mostrare il suo innato talento. Ma ora, fermiamoci tutti e respiriamo un attimo. E cerchiamo di rispondere a questa domanda: di cosa si sta accusando, esattamente, il giocatore danese, e di riflesso il suo nuovo allenatore?
No, perché è diventato fin troppo facile etichettare come un caso la situazione di un giocatore che non ha purtroppo la colpa di essere un Wesley Sneijder che arriva in Italia e 48 ore dopo recita da protagonista nel derby contro il Milan; diversa pasta, diversi giocatori, soprattutto diverso il contesto nel quale i due sono arrivati (il tutto senza dimenticare che Sneijder, dopo un bell’impatto, visse anche lui un periodo senza particolari lampi, ma anche lì partì subito il feroce fuoco di fila delle critiche inopportune). Ci si dimentica, volutamente o meno, del fatto che Eriksen è un giocatore che viene da un periodo dall’impiego abbastanza ridotto al Tottenham, e si ritrova catapultato in una realtà completamente diversa rispetto alla Premier nella quale è chiamato a cucirsi un abito tattico differente, per confezionare il quale il tecnico necessita indubbiamente di tempo, tempo più che mai ridotto in considerazione del fatto che sin qui la squadra ha giocato secondo diversi dettami e che ora si vede che sta comunque cercando di metabolizzare qualche novità per permettere un inserimento più veloce possibile al danese.
Ma arrivare a gennaio è ben diverso che arrivare in estate, svolgere tutta la preparazione estiva coi compagni e iniziare ad adeguarsi; Eriksen è stato un colpo talmente importante da far dimenticare il fatto che gennaio, solitamente, non è il mese giusto per l’arrivo di grandi giocatori. Quello invernale è un mercato che, se dovessimo fare un sondaggio tra gli allenatori, la maggior parte dei quali probabilmente lo definirebbe indigesto, e dove raramente arrivano giocatori in grado di fare davvero la differenza, anzi il più delle volte arriva gente che cade nel dimenticatoio e lascia pochissimi ricordi. Per cui, senza cascare troppo facilmente nelle trappole di casi più facili da aprire che in un serial poliziesco e di giudizi troppo affrettati, si può dire, e del resto vi avevamo anche avvisato su questi schermi, che Eriksen ha tutto per prendersi il posto da titolare in poco tempo e per far sognare i tifosi interisti come logico che un nome di questo calibro possa fare, ma è anche ingiusto, per non dire deleterio, pretendere tutto e subito, perché tante, troppe sono le variabili che impongono la cautela.
Domani, riparte la campagna europea dell’Inter: esauritasi nuovamente ai gironi l’esperienza nell’Europa dei nobili e della Champions League, si ricomincia dalla versione piccolo-borghese dell’Europa League e dalla trasferta in quel di Razgrad, nella foresta verde bulgara, contro il Ludogorets, formazione che sulla carta non dovrebbe rappresentare un pericolo così enorme per la truppa nerazzurra. Tra l’Italia e la Bulgaria si sviluppavano le vicende di un film comico simpatico e senza troppe pretese, dal titolo ‘Occhio alla Perestrojka’, nel quale i protagonisti si barcamenavano in diverse peripezie legate al dissolvimento del blocco sovietico e conseguente arrivo in Italia di alcune amiche conosciute in Bulgaria con grottesche situazioni annesse.
Perestrojka, termine passato alla storia in quale cavallo di battaglia della politica di Michail Gorbaciov, lo statista che pose fine alla guerra fredda accompagnando l’Unione Sovietica verso il tramonto di un impero e di un’era, in russo vuol dire ‘ristrutturazione’. Qualcosa che magari qualcuno ha auspicato in maniera più o meno silente possa avvenire all’Inter: ristrutturazione magari a livello tattico, con un nuovo modulo che possa variare le sorti di una stagione. Ma tutti sappiamo bene come Conte tenga agli equilibri in campo, quegli stessi equilibri che comunque lui ha costruito secondo certe logiche, e diventa difficile pensare a grossi stravolgimenti a questo punto di stagione. E quindi, anche qui, chissà se e quanto ci penserà su prima di affidarsi a questa ‘perestrojka’, perché non sono una partita persa o un periodo di appannamento come può capitare a qualunque squadra al mondo a poter far parlare di certezze saltate o di stagione andata alle ortiche.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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