Esiste una locuzione nella lingua italiana con un significato ben preciso, che ha avuto estensioni importanti anche nel cinema e nella televisioni e altri connotati decisamente meno felici nella storia contemporanea: anno zero. Anno zero inteso come punto di partenza verso un nuovo ciclo, una nuova fase storica, un nuovo inizio insomma. Un anno zero atteso in maniera quasi messianica dai tifosi dell’Inter, che dopo i fasti della seconda meta degli anni Duemila hanno dovuto ingoiare bocconi amari su bocconi amari, in un susseguirsi di stagioni più o meno grigie che però non sembra avere più fine.
La sconfitta di Firenze è suonata come l’epitaffio di una stagione dal copione che si ripete con una regolarità che, a parte qualche rara eccezione, si ripete con imbarazzante regolarità: grandi promesse iniziali, primi inciampi, situazione di classifica e di conseguenza della panchina che pare traballare, tentativo di mettere una pezza a campionato in corso, veemente ed illusorio tentativo di rimonta che alimenta sogni che presto si trasformano in utopie, fino al tracollo finale. E in tutto questo, ovviamente, nel mirino finisce l’uomo più esposto di tutti, si può dire per definizione: l’allenatore. Ne sono passati tanti sulla panchina dell’Inter dopo la gloriosa parentesi di José Mourinho, e praticamente tutti hanno dovuto fare i conti con quello che Giovanni Trapattoni definiva a suo tempo una ‘centrifuga’, vale a dire l’ambiente Inter: nessuno, per un motivo o nell’altro, può dire di essere uscito sano e salvo da questo continuo vortice.
Stesso destino che ora sembra dover toccare anche all’ultimo anello di questa catena, ovvero Stefano Pioli. La cui situazione, volendo, è stata ancora più paradossale: il suo arrivo è figlio dell’estate più travagliata della quale si abbia memoria nella storia recente nerazzurra, quella dell’addio clamoroso più per le tempistiche che per i presupposti di Roberto Mancini, il salto nel vuoto a due settimane o giù di lì dall’inizio del campionato con l’idea, rivelatasi grottesca prima e catastrofica poi, di affidare la panchina a Frank de Boer, più per una voglia da togliersi da parte di Erick Thohir che per una vera convinzione nei mezzi del tecnico olandese, esautorato senza troppi complimenti e convenevoli non appena la situazione si è fatta insostenibile per tutti.
Pioli arriva, auspica di poter essere definito un ‘potenziatore’ ma alla fine non riesce mai a scrollarsi di dosso l’etichetta di traghettatore, nemmeno quando l’Inter sembra aver ritrovato la luce in fondo al tunnel con tanto di esplosione atomica in casa contro l’Atalanta. Anzi, proprio in quei giorni cominciavano ad emergere le voci sulla voglia di Suning di dotarsi per la prossima stagione di un nuovo allenatore, uno col profilo vincente. La rincorsa alla Champions diventata sempre più vano man mano che le giornate andavano riducendosi ha fatto il resto, e allora ecco l’Inter implodere in maniera clamorosa, psicologicamente prima ancora che fisicamente. Ne vengono fuori prestazioni imbarazzanti come a Crotone, poca reattività, abulia montante, accentuata incapacità di reggere difensivamente; il tutto culminato con la prova shock di Firenze, dove nello spazio di venti minuti la retroguardia dell’Inter crolla quasi come le linee italiane a Caporetto facendosi perforare per quattro volte senza nemmeno mostrare un briciolo non solo di reazione, ma anche di dignità.
Il resto è storia recente: la strigliata negli spogliatoi da parte dei dirigenti, le voci sull’intenzione di Stefano Pioli di dimettersi, la decisione di rinchiudere la squadra in ritiro a partire da ieri e fino alla gara contro il Napoli, ultima scialuppa di salvataggio prima di vedere la barca andare definitivamente a picco. In tutto questo, però, spicca una mossa per certi versi inusuale per chi ha vissuto da vicino gli ultimi anni dell’Inter: una nota ufficiale. Dove il club prende una posizione definitiva a difesa di Pioli e soprattutto mette alla frusta quelli le cui responsabilità non sono forse mai state soppesate a dovere, ovvero i calciatori. La cui prestazione al Franchi è stata definita inaccettabile e ai quali è arrivata la strigliata pubblica con il diktat di onorare i colori di questo club. Tutto questo a pochi giorni dal ritorno in Italia di Zhang Jindong, che se quanto fatto con lo Jiangsu Suning lunedì può essere usato come riferimento del suo stato d’animo, al momento del summit con la squadra nerazzurra è possibile immaginare tuoni, fulmini e saette ancor più di quelle annunciate dalle previsioni meteo per le prossime ore…
Mossa necessaria, opportuna, significativa, quella del comunicato. Nel quale la società ha provato a chiarire la sua posizione ufficiale dopo i tanti, troppi spifferi degli ultimi giorni. Sicuramente una mossa giusta, ma dopo il plauso per il tentativo di chiarezza sopraggiungono, inevitabili e pressanti, anche gli interrogativi in merito. In primo luogo, viene da chiedersi perché questo comunicato è stato diramato adesso, che ormai la sarabanda sul nuovo allenatore è partita e pare inarrestabile e ancora adesso si parla di una reggenza finale nelle mani di Stefano Vecchi in caso di nuovi crolli, e non nel momento in cui, nonostante i risultati fossero in un certo modo tali da poter giustificare la convinzione dello schieramento pro-Pioli, tali voci hanno iniziato a farsi prepotenti. O ancora meglio, viene da chiedersi perché non si è fatto ancora prima, quando De Boer era nell’occhio del ciclone e nessuno, al di là delle dichiarazioni di rito, ha mosso effettivamente un dito per proteggerlo dai vari capi d’accusa.
Soprattutto, perché all’Inter l’allenatore deve sentirsi per definizione solo, in preda degli umori di uno spogliatoio che va per conto suo e appena scocca la scintilla fa saltare il banco? Perché in questa squadra serve che arrivi un allenatore che sia una sorta di generale, la figura che mette in riga tutto e tutti, per dare una parvenza di stabilità all’intero sistema? Perché la società deve sempre farsi piovere addosso accuse più o meno legittime di lassismo, assenza, leggerezza nell’affrontare le questioni più spinose? Perché, insomma, l’ambiente Inter deve sempre vivere con la nomea di qualcosa che viaggia su un binario parallelo rispetto a quella che dovrebbe essere la gestione normale di una società che si presume essere d’élite?
D’accordo, sin dagli albori l’Inter si è voluta fare portabandiera di altri valori oltre a quelli sportivi, e mai il club nerazzurro pare aver sofferto di quell’ossessione da vittoria a tutti i costi che permea la mentalità di altri club. E chi ora è indicato come esempio virtuoso in tutta Italia, prima di avere quella tanto decantata struttura dirigenziale forte è comunque passato prima da un paio di anni di buio, di risultati latenti e di piazza in fibrillazione, prima della svolta storica che ha portato alle performance sportive ed economiche che sono sotto gli occhi di tutti. Due-tre anni, appunto. Sulla sponda nerazzurra del Naviglio, invece, il periodo di carestia si è prolungato ulteriormente, tra giocatori che vanno e vengono (quasi ottanta in cinque anni) senza un filo logico, allenatori condannati al precariato e nessuno che sappia dare una linea manageriale ben precisa e che soprattutto sappia trasmettere senso di appartenenza alla maglia.
Adesso sembra vicino il ritorno di Gabriele Oriali, e ben venga se può dare una mano in tal senso, anche se, fosse vera la voce che Piero Ausilio avrebbe richiesto il suo ingaggio, questo sarebbe interpretabile come un ulteriore segnale di debolezza da parte dell’attuale dirigenza, all’insegna del ‘vorrei ma non posso’. Ma non si pensi al buon Piper come la panacea di tutti i mali, perché il cammino da fare in tal senso è ancora lungo. E l’Inter e gli interisti non possono permettersi di rivivere ogni anno lo stesso giorno: il calcio va avanti, vivere nel mondo di Bill Murray in ‘Ricomincio da capo’ o di Antonio Albanese in ‘È già ieri’ non è più tollerabile.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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