Il clamoroso ritorno di Romelu Lukaku all'Inter a meno di un anno dal suo addio a Milano, pardon arrivederci, impone, tra le altre cose, una riflessione sul rapporto tra i tifosi e la propria squadra del cuore. Sì, perché il calcio, anche quello moderno senza bandiere, continua a veicolare emozioni intense che spaziano tra due poli, l'amore e l'odio. Sentimenti che possono essere stimolati dalla stessa persona, magari nel giro di poco tempo, dato che lo sport più bello del mondo, soprattutto in Italia, viene vissuto come una religione, ovvero il complesso di credenze e riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro. Chi li trasgredisce, non a caso, finisce nel girone dei traditori, coloro i quali peccano calpestando la fiducia che gli è stata concessa per inseguire una chimera.
E' il caso, appunto, di Big Rom che la scorsa estate ha deciso di fare una scelta professionale legittima passando al Chelsea campione d'Europa ma nascondendosi dietro il sogno di giocare per la squadra che tifava sin da bambino. Un comportamento ipocrita per ingraziarsi i nuovi fan dopo avere lasciato orfano un popolo intero che lo aveva proclamato addirittura il re della città. Il belga ha sempre omesso di dire, dopo essersi auto-definito uno dei tre attaccanti più forti del mondo, che la sua volontà fosse cambiare il suo status di giocatore, dimostrando di essere all'altezza della Premier League una volta dominata in lungo e in largo la Serie A. Ambizione che, in ogni caso, non sarebbe stata digerita da chi in una vita professa un'unica fede, come testimoniato dal messaggio che la Curva Nord inviò al giocatore lo scorso 9 agosto: "Caro Lukaku, da te ci saremmo aspettati un comportamento più onesto e trasparente. Ma, nonostante ti avessimo accolto e protetto come un figlio, come uno di noi, anche tu ti sei dimostrato come tutti gli altri, inginocchiandoti di fronte al denaro" Posizione che la CN ha ribadito in maniera perentoria in queste ore, definendo il classe '93 di Anversa 'uno dei tanti', sperando di trovare appoggio anche dai compagni di tifo che non frequentano il secondo anello verde: "Invitiamo comunque tutti gli interisti a non cadere nel tranello opposto, quello di correre subito a sbavargli dietro. Oltre ad un chiaro aspetto emozionale istintivo, fare finta che niente sia successo, altro non farebbe che dare una ulteriore accelerata a quel processo oramai in atto da anni finalizzato a renderci tutti ebeti e supini consumatori".
Nel messaggio, la parola chiave è certamente 'consumatori', con quell'ebeti di accompagnamento che rimanda al famoso 'non evoluti' di gallianesca memoria. Categorie di persone create a uso e consumo che non può oscurare un fatto oggettivo: i tifosi non sono tutti uguali, a volte si dividono in fazioni perché mossi dall'irrazionalità del momento, ma sempre con in mente il bene superiore che è il successo della propria squadra. La questione Lukaku è solo l'ultimo esempio di una coerenza a targhe alterne di chi, fino al maggio scorso, celebrava Antonio Conte come allenatore campione d'Italia nonostante le dichiarazioni post Juve-Inter 1998 o lo 'stiamo ancora godendo' del 5 maggio 2002'. Tutt'oggi c'è chi osanna l'ad Beppe Marotta, che ai tempi di Torino festeggiò lo scudetto bianconero numero 34 contandone due in più in barba alle sentenze di Calciopoli. Senza dimenticare quelli che hanno deciso di acclamare Hakan Calhanoglu un secondo dopo il suo passaggio da una sponda del Naviglio all'altra o che si augurano l'acquisto di Paulo Dybala, da 'tuffatore' a campione all'atto del divorzio bagnato dalle lacrime dalla Vecchia Signora. La storia di Lukaku ci insegna che non esistono giocatori-tifosi né tifosi professionisti per due motivi: i primi non possono giurare amore eterno a una squadra, i secondi sono individui che tramandano determinati valori a figli e nipoti in cambio di senso d'appartenenza senza retribuzione economica.
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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