All’Inter ha trascorso solo due anni, ma i tifosi nerazzurri ne hanno apprezzato garra e capacità di non mollare mai. In campo era un guerriero, oggi trasmette la sua voglia ai propri giocatori. Matías Almeyda, in esclusiva per FcInterNews, parla di calcio ma non solo. In un’intervista tutta da gustare ecco aneddoti, pensieri e rivelazioni di un grande ex calciatore che non ha paura di mettersi a nudo e raccontare i propri punti deboli.

Lei oggi è l’allenatore del S.J. Earthquakes, negli Stati Uniti. Come procede la sua avventura?
“Bene. Stiamo lavorando con serietà, professionalità e voglia di migliorare. Qui c’è un buon livello di calcio: si tratta di un campionato che sta crescendo, in cui militano molti giovani e convergono le idee di allenatori provenienti da tutto il mondo. C’è molta organizzazione, serve tempo per acquisire esperienza, però i progressi sono visibili a occhio nudo”.

Lei ha lavorato con moltissimi allenatori. Si ispira a qualcuno in particolare?
“Non ho un referente, anche se è vero che ho avuto svariati mister preparati che mi hanno lasciato gran bei ricordi. Ma io ho il mio stile. Seguo il mio modo di pensare, di sentire e di vivere il calcio. Non imito nessuno”.

Riavvolgiamo il nastro dei ricordi. Partiamo dalla sua prima esperienza in Italia con la Lazio.
“Una rosa creata bene. Eravamo 25 giocatori, di cui la maggior parte tutti facenti parte delle rispettive selezioni e di primo livello. Sapevamo che potevamo competere in Europa, ed è stato molto bello giocare per i biancocelesti in quel periodo storico. Non a caso vincemmo sei trofei”.

Poi il passaggio al Parma, altra squadra che ai tempi era fortissima.
“Anche quel team era stato creato per conquistare lo Scudetto. Vincemmo l’ultima Coppa Italia della storia della società ducale. Quando Crespo arrivò in biancoceleste sia io e che Sergio Conceiçao venimmo ceduti”.

Forse l’acquistarono anche per l’eurogol siglato al volo da centrocampo con un tiro sotto al sette.
“Io sempre vissuto il calcio e la vita al limite. Con amore, passione e sincerità. Le confesso che quel tipo di conclusione la provavo ogni allenamento. E i miei compagni ridevano di me. Addirittura un assistente di Eriksson sosteneva che mai avrei potuto segnare una rete simile. Ma io lo sfidai e gli annunciai che sarei entrato nel tabellino di una gara top con una rete sensazionale. E così fu. Con la ciliegina sulla torta che avevo battuto Buffon, il miglior portiere del mondo. Anche se quel tiro non lo avrebbe preso neanche Superman (ride, Ndr)”.

Successivamente il trasferimento all’Inter, altra compagine costruita per arrivare in alto.
“L’Inter era ed è un’istituzione mondiale. Era, e dovrà essere sempre, costruita per vincere. Rimasi due anni, peccato che a Milano non conquistammo nulla”.

Arrivò nel 2002.
“Sì, ma successivamente al 5 maggio. Se ai tempi fossi già stato nerazzurro, avremmo vinto di sicuro. Mancava grinta… (ride, Ndr)”.

Poi però anche voi sfioraste grandi successi, ma rimaneste con un pugno di mosche in mano.
“Quell’Inter era in una fase di cambiamento. Tanto per dire Ronaldo il Fenomeno andò al Real Madrid. Ma noi arrivammo sino alla semifinale di Champions League, in cui fummo eliminati dal Milan solo per la regola dei gol in trasferta”.

Effettivamente fu un peccato.
“Certo, all’andata finì 0-0. Al ritorno 1-1. Il Milan passò semplicemente perché il sorteggio lo aveva decretato come squadra di casa nella partita di andata. Fosse stato il contrario, saremmo passati noi. E la storia sarebbe potuta essere differente. Noi a giocarci la finale e i rossoneri eliminati. Volevamo vincere la Coppa dalle Grandi Orecchie. E ce lo saremmo meritati. In campo nel doppio confronto eravamo stati sicuramente superiori ai nostri avversari e avremmo meritato il passaggio del turno. Un vero peccato…”.

Con la maglia dell’Inter, e contro la Lazio, venne espulso. E rubò il cartellino all’arbitro Trefoloni. Cosa le passò per la testa?
“Mi ero arrabbiato con Corradi. Lui fino a un mese prima era stato in ritiro con noi e avevamo convissuto davvero molto bene. Ci fu un contrasto a centrocampo con Adani, ma Bernando se la prese con me e mi insultò pesantemente. Da lì, anche perché si trattava di una partita caliente, persi la pazienza (letteralmente: "mi saltò la catena", Ndr) e iniziammo a discutere. Ma il direttore di gara buttò fuori solo me. Vidi il rosso e d’istinto gli rubai il cartellino (ride, Ndr). Non era giusto, ripeto: io non avevo fatto fallo, era stato Lele. D’altronde però a quei tempi c’erano arbitri che se la prendevano molto facilmente con me. Bastava che facessi X e venivo subito ammonito”.

Lei ha giocato con grandissimi campioni.
“Ho militato in squadre composte da fuoriclasse. Professionisti esemplari ed illuminati. Le faccio qualche nome: Mancini, Nesta, Nedved, Davids, Jugovic, Baggio. Oggi non c’è più questa classe e questa categoria di giocatori”.

Lei forse qualche errore però lo ha commesso fuori dal campo. Nella sua autobiografia 'Alma y vida' si parla di un’ubriacatura quando militava ancora in Italia.
“Quello era un compleanno, a dire il vero non è che ogni giorno bevevo vino”.

Il suo demone era un altro.
“Sì, non si deve fare confusione e mischiare le tematiche. Io ho sofferto di depressione. Ma qualcosa connesso alla mia vita privata, come qualsiasi essere umano che può stare male. Per fortuna ne sono uscito. Tematiche di vita, per l’appunto. Io le ho raccontate, altri non se la sentono”.

Pensa che altri calciatori professionisti possano soffrire o soffrano di depressione?
“Non lo penso, ne ho la certezza. Per questo motivo l’ho raccontato. Per aiutare quegli atleti che per paura non escono allo scoperto. Ma questo vale per tutte le persone. Ci vuole coraggio per dichiarare questi problemi. Ma io sono la dimostrazione di come anche i giocatori di livello mondiale non siano immuni a certi problemi”.

Quanto è importante la grinta quando scendi in campo?
“Credo che si tratti di amor proprio, della passione per quello che si fa. Non devi accontentarti di un pareggio, ma provare a scendere in campo per vincere, lottare su ogni pallone, tentare di recuperare se si commette un errore ed essere solidale con il proprio compagno di squadra. Da lì scatta la molla. Credo che tutti i giocatori dovrebbero avere queste caratteristiche. Il calcio alla fine resta un gioco. Si deve vivere con passione e amore, non per i soldi o per l’essere famosi. Poi sa, in campo a volte riversi quello che la vita ti ha dato. Pensi ai sacrifici tuoi e di mamma e papà, alle difficoltà incontrate nel tuo percorso e così dimostri più o meno grinta. Poi sa, non è facile quando cresci e non hai nulla e da un giorno all’altro guadagni un sacco di soldi e ti acclamano migliaia di persone, ma questo è un altro discorso. Diciamo che per formare una squadra vincente servono diverse componenti oltre alla grinta, come la tecnica e qualità varie: ognuno deve dare il proprio apporto”.

Come vede la A attuale?
“Il calcio italiano sta nuovamente crescendo. Non è ancora come nell’epoca delle sette sorelle, ma oggi finalmente il campionato è equilibrato. Vedo la Juventus favorita, non so se il Milan manterrà sino alla fine questo livello. Ma il fatto che l’Inter possa certamente competere, che la Lazio lo abbia fatto e che ci siano novità come il Sassuolo certificano una Seria A più avvincente”.

A proposito di Milan, come è andata quando ha affrontato Ibrahimovic col S.J. Earthquakes mentre lo svedese militava per i Los Angeles Galaxy?
“Due confronti e non ha segnato. Io studio molto: preparai un modo particolare per marcarlo, riuscendo a trovare il modo di fermarlo. E attenzione: parliamo di un crack, che però si incazza molto facilmente. Basta schiacciargli un piede e tac…rischia di lasciare la sua squadra in 10”.

Ultima domanda: si vede in futuro come mister in Serie A?
“Io spero mi chiamino. Mi piacerebbe avere questa possibilità, anche se dall’Europa non guardano molto i campionati da questa parte del mondo. E sono anche convinto di avere le capacità per fare bene. Non è da tutti prendere il River che rischia la retrocessione e allenare con tale pressione. In Messico ho guidato una squadra senza stranieri, vincendo 5 finali delle 7 disputate. E ora al San José sta andando bene. Pensi che quando sono arrivato io questo team era ultimissimo e aveva vinto solo 4 partite in un anno. Ripeto, 4 in un anno…Con gli stessi giocatori abbiamo prima sfiorato i playoff e poi ci siamo qualificati. Ci sono tappe che si devono affrontare. E io mi rendo conto di aver già disputato un tipo di percorso che mi ha fatto crescere e maturare molto. Per questo mi auguro di allenare in Italia. Conosco il tipo di calcio, mi sento a casa e sono pronto. Anzi, sono sicuro che quando succederà, riuscirò a vincere”.

Sezione: Esclusive / Data: Ven 01 gennaio 2021 alle 13:00
Autore: Simone Togna / Twitter: @SimoneTogna
vedi letture
Print