Resta solo il gol di Dzeko. Di statistiche ce ne sarebbero da tirare fuori, e generalmente adesso appaiono tutte notevoli e confortanti. Uscire però dalle trasferte con Roma, Napoli e Juventus con 5 punti in tasca e un solo gol subito è un dato straordinario. Soprattutto, è straordinario se rapportato a una produzione offensiva che è ben lontana da quella asfittica che esibiva un paio di anni fa l’Inter degli 1-0. Certo, non è il caso di ieri: ieri, lì davanti, non c’è stata inventiva né tempismo, non si son tentate cose difficili e, al cospetto della compatta muraglia bianconera, le cose facili non son chiaramente riuscite. Diciamola tutta: abbiamo due esterni che sono stellari negli spazi, e inevitabilmente meno bravi quando si tratta di districarsi nello stretto. Considerare Candreva e Perisic sconfitti nei duelli rusticani con De Sciglio e Asamoah è quantomeno miope, perché si trascurano i raddoppi, incessanti, operati dai due interni bianconeri sulle ali interiste, a creare quella selva di gambe dalla quale i nostri non sono mai realmente usciti. Matuidi, in particolare, ha fornito una prestazione gigantesca, e infatti Candreva ha sofferto le pene dell’inferno. Meglio Brozovic sulla trequarti, con un piglio a metà tra qualche –minima– distrazione di troppo e importanti fiammate di creatività, a conferma che il croato è davvero il miglior candidato possibile per quel ruolo: giocatore dai margini infiniti, dalla testa un po’ così, ma Spalletti ha operato finora ribaltamenti ben più complessi e insperati di quello che lo attende per la trasformazione definitiva di Brozo in un giocatore d’altissimo livello. Teniamocelo stretto, guardiamolo bene e godiamocelo. Infine, l’unica pecca tattica di una gara altrimenti letta alla perfezione, con quel Mandzukic spesso solo a colpire (o a lisciare) lì sull’out di destra nerazzurro. La Juve, sfruttando il lavoro degli interni, riempiva l’area con costanza, attirando il povero D’Ambrosio in una terra di mezzo nella quale l’azzurro finiva inevitabilmente per perdere contatto con lo spilungone alle sue spalle. Per fortuna, il bosniaco la porta ieri non voleva proprio prenderla, e dietro c’era un Handanovic che non conosce più flessioni dal suo stato di grazia.
Stop, finito qui. Le pochissime pulci da fare all’ottima Inter di ieri son terminate, e forse son fin troppe. Occorre godersi con gioia questa squadra stellare, granitica nella testa anche laddove, talvolta, si apre qualche spiraglio in una muraglia comunque mai così ben ordita. Lì dietro, Handanovic-Skriniar-Miranda formano il novello triangolo delle Bermuda, assorbendo in sé ogni dannato pallone passi da quelle parti. A riprova della straordinaria serenità mentale con cui i nerazzurri vanno anche nel campo più ostico, e ostile, d’Italia, basti guardare lo slovacco, che esordisce lisciando un pallone pericoloso e prosegue la sua gara come niente fosse, imponendo la sua stazza e la sua classe superiore all’attacco monstre che si trovava davanti. Che dire, poi, di Miranda, che pare davvero essersi ritrovato: difficile ricordare una prestazione di così grande personalità e spessore nell’ultimo anno e mezzo del brasiliano. Dopo tante occasioni in cui Miranda sembrava non sfigurare anche grazie al traino di Skriniar, le gerarchie sembrano adesso ristabilite in un equilibrio senz’altro più salutare, col giovane di talento infinito e rendimento stellare che può giovarsi dell’esperienza e la classe del navigato brasiliano. Su Handanovic occorrerebbe scrivere un lungo pamphlet elogiativo, dunque basterà qui il formale e sereno riconoscimento della palma di miglior portiere del campionato, per i riflessi felini e l’assoluta tranquillità che infonde ai compagni di reparto. Se con la lucida genialità e la crescente onnipresenza di Borja Valero (che acquisto!) si è colmata anche la famosa e annosa lacuna del cervello in mezzo al campo, vorrà dire che in estate si è davvero lavorato bene.
Sappiamo che la Juventus è avanti, negli uomini come nella testa, e sarà ancor più bello riuscire a mantenerne il passo ora che non avrà l’impegno europeo in settimana. Mentre noi tutti ci interroghiamo ancora sui reali valori dei nerazzurri, la classifica inizia a gocciolare miele per quanto è bella, e Spalletti non c’è una volta che parli con soddisfazione di un pareggio. Anche ieri sera, il tecnico nerazzurro è stato ben saldo nell’atteggiamento già sciorinato nel post-Napoli, un chiaro monito secondo il quale l’Inter è l’Inter, e se ha pareggiato vuol dire che non ha fatto il suo compito fino in fondo, non importa chi avesse di fronte. Ha ragione lui. Adesso, per molti versi, cambia tutto, perché non sarebbe più giusto e sincero parlare di Inter sorprendente e di Inter miracolosa. La credibilità, nel calcio, è un castello di carte, difficile da costruirsi e facile al crollo di fronte al primo soffio di vento. A un certo punto, però, intorno a quel castello metti una teca, e allora puoi esibirlo con fierezza sulla mensola. Ora è appunto così: l’Inter è tornata l’Inter, credibile e temibile, così tanto da invitare la Juventus a partire guardinga. Niente più corse calcolate, niente contentini: finché si è in ballo, insomma, si prosegua tutti a ballare da Inter. Lo impone la Storia, in bella mostra sulla mobilia di Appiano; insieme a lei, da oggi, c’è anche la credibilità, il più esigente dei critici.
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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