L’aria fritta che da ormai cinque anni ci veniva puntualmente propinata dallo spirito fazioso di parecchi giornalisti, o presunti tali, nel tentativo di lobotomizzare cervelli e stravolgere totalmente la realtà dei fatti, finalmente è stata una volta per tutte debellata dal giudizio del Tribunale di Napoli emesso lo scorso 8 novembre. Una sentenza che, oltre ad aver poggiato la pietra tombale su una vicenda che lascerà comunque segni d’amarezza indelebili sull’anima dei moltissimi tifosi truffati dagli squallidi intrallazzi concretizzati nelle stagioni precedenti allo scoppio di Calciopoli, in sede penale ha sostanzialmente ricalcato il giusto verdetto sportivo del luglio 2006 e, dunque, inchiodato definitivamente alla parete un quadro già noto: Juventus del direttore generale Luciano Moggi ritenuta colpevole principale per ciò che riguarda l’abominevole concorrenza sleale praticata ai danni di diverse squadre di Serie A antecedentemente al 2006/’07, una concorrenza sleale adeguatamente spalleggiata da personaggi dalla dubbia moralità che proseguivano imperterriti nella loro opera di distruzione della regolarità del football italiano – ossia gli arbitri Massimo De Santis, Salvatore Racalbuto, Paolo Bertini e Antonio Dattilo, i guardalinee Claudio Puglisi e Stefano Titomanlio, i designatori Paolo Bergamo e Pier Luigi Pairetto ed il vicepresidente Figc Innocenzo Mazzini – e parzialmente sottoscritta pure dalla Fiorentina di Sandro Mencucci, Andrea e Diego Della Valle (attorno al tavolo invocato da quest’ultimo, quindi, ora ci si potrà sedere solo per domandare al patron viola come intenderà scontare i quindici mesi di reclusione inflittigli), dalla Lazio di Claudio Lotito, dalla Reggina di Pasquale Foti e dal Milan del dirigente-ristoratore Leonardo Meani. Una sentenza che, però, ha avuto il pregio di rappresentare un simbolico regalo per l’odierno cinquantaseiesimo compleanno dell’uomo che, durante il campionato 2001/’02, senza i desolanti intrecci di cui sopra sarebbe pressoché certamente entrato nella storia dell’Inter come il mister capace di riportare lo scudetto sulla sponda nerazzurra del Naviglio dopo tredici, pesanti anni d’astinenza: l’argentino Hector Cuper, l’unico allenatore ingaggiato da Massimo Moratti che, tra quelli che con il Biscione non hanno conquistato nemmeno un trofeo, più se lo sarebbe meritato.
Arrivato a Milano nel 2001 direttamente dalla Spagna (affrontando il lungo viaggio in maniera solitaria, come accaduto all’illustre predecessore Helenio Herrera, al volante della sua automobile) nel bel mezzo di una delle tante roventi estati che per i giovani studenti iniziavano ufficialmente con il ritorno in tv del Festivalbar e terminavano con l’emozionato saluto all’accattivante indigena che in vacanza ne aveva rapito il cuore, l’educato e rigoroso tecnico di Chabas tentò all’istante di restituire alla truppa capitanata da Javier Zanetti ciò che maggiormente le era mancato nel recente passato: la disciplina, apparentemente applicata con un’intransigenza tale che addirittura pareva stridere con il comportamento mite e riservato dell’”Hombre Vertical” sudamericano, gentile gaucho tutto d’un pezzo con l’hobby del sassofono che, all’autorevole carisma che immediatamente magnetizzò la Beneamata, accostava una predisposizione maniacale per il lavoro ereditata da una famiglia di umili ma degne origini. Pur continuando a giocare a pallone grazie al discreto talento posseduto, che in futuro gli avrebbe pure fatto collezionare otto presenze in Nazionale, Cuper da adolescente si era infatti dato da fare, tra le altre cose, come ragazzo di bottega: la fatica era il suo pane e le dure sedute atletiche, piuttosto mattiniere, cui il fido preparatore Alfano sottoponeva i nerazzurri erano dunque la naturale conseguenza che il tonico conducator albiceleste traduceva sul campo d’allenamento, luogo dove, pur avendo presto capito di capeggiare un gruppo caratterialmente disomogeneo e sovente privato dei propri uomini migliori a causa di alcuni infortuni di troppo, era riuscito a plasmare una compagine gagliarda e competitiva. Una formazione alla quale don Hector – fedelissimo attuatore di un classico 4-4-2 molto solido ed equilibrato, anche se poco spettacolare, che nelle due annate precedenti gli aveva fruttato due inaspettate finali di Champions League alla guida del non trascendentale Valencia – aveva perfettamente inculcato l’indole determinata e tenace, evidente marchio di fabbrica dell’ex arcigno difensore dalla voce roca e dallo sguardo penetrante che amava spesso preferire i gesti alle parole (l’abituale mano battuta con orgoglio sul petto di ciascun suo calciatore durante l’ingresso sul rettangolo verde ne era una chiara dimostrazione) e mal tollerava lo scarso rispetto delle regole. Una persona in grado di far restare il Biscione ai vertici della classifica per l’intera stagione, a cui l’appassionato pubblico interista, forte dei buoni risultati che la gestione Cuper stava producendo, aveva affidato l’attesissimo sogno tricolore fatalmente assente dalla straordinaria cavalcata-record 1988/’89.
Un lieto sogno tramutatosi però, in una calda domenica di primavera, in un insopportabile incubo ululante una data ben precisa: cinque maggio 2002, ultima giornata di un torneo che, nonostante le numerose decisioni arbitrali subite a sfavore (le più clamorose nelle trasferte con Parma, Udinese, Venezia e Chievo), vedeva il club meneghino essere ancora al comando e disputare, nell’accecante sole di uno stadio Olimpico totalmente schierato in appoggio, la decisiva gara contro una dimessa Lazio reduce da un campionato ampiamente di basso profilo. Per cancellare in un solo attimo i discutibilissimi operati di certe giacchette nere – il criminoso De Santis della partita di Verona su tutti, rivelatosi risolutivo a 270 minuti dall’epilogo per l’assegnazione dello scudetto alla Juve dell’associato per delinquere Moggi – a Zanetti e compagni sarebbe in ogni caso bastato vincere a Roma alla fine di un’estenuante settimana di vigilia spesa tra indicibile tensione e desiderio di festa, ansia ed entusiasmo, nervosismo e speranza: una settimana dove Cuper, a differenza probabilmente di qualche suo atleta, insisteva nel non dare nulla per scontato e, come da decennale consuetudine, seguitava quindi a cercar di contenere le pressioni esterne nei confronti della squadra. Un angosciante secondo tempo d’incredibile affanno e paura, cui pure il solitamente combattivo allenatore argentino assistette con incredulità, chiuse invece il match sul 4-2 per i biancazzurri e fece così scivolare una Beneamata inspiegabilmente priva di voglia e carattere addirittura al terzo posto.
Pierluigi Avanzi
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